di Giulia Elia*
Tra il fumo di una chiacchierata in una stanza della Procura di Roma in piazzale Clodio, finalmente un’immagine mi fa davvero intuire per la prima volta cosa può significare nell’intimo, vivere con HIV. “Se non le chiedi, non ti daranno mai le risposte che vuoi”. La cosa più difficile è forse proprio chiedere le cose giuste.
Inizio a essere pratica di processi e frequentatrice assidua di aule di tribunale; mi appassiono al diritto penale, al diritto di esprimersi e a quello di dire, sempre e nonostante. E comincio a pensare che mi sarebbe stato utile studiare giurisprudenza.
Da spettatrice, assisto alle udienze che si scaglionano con costanza: in quest’aula, in questo luogo che è un non luogo, cercarsi le storie diventa un impegnativo esercizio di caparbietà, perseveranza, garbate insistenze, resilienze. Ma dopo un mese di estenuanti corteggiamenti, quando finalmente i nodi si sciolgono e la tua testardaggine l’ha avuta vinta nel farti concedere l’intervista, allora significa che hai provato su te stessa che la pazienza, in fondo, paga. Anche con gli avvocati: è uno spiraglio di felicità, forse riesco ad avere Lui! – così mi hanno detto – “Ma finché non premi Rec”, mi mette in guardia Pablo per evitarmi future frustrazioni, “Devi pensare che non ce l’hai ancora”. E per ora rimane soltanto un sogno, da realizzare.
Se la pazienza paga e le interviste entrano è sicuramente una piacevole soddisfazione: ma la vera meraviglia è quando le persone ti insegnano qualcosa attraverso la loro esperienza e ti regalano un pezzetto del loro vissuto, con l’esempio e le parole. Chiacchierandoci, mi convinco sempre di più di una cosa. Non ti distrugge la malattia, ti distrugge l’idea di essere malata. “Non sei la tua malattia, è una cosa molto difficile da capire, ma dipende come la vivi tu. Se ti identifichi con la tua malattia, tutti ti identificheranno così. Se qualcuno vuole distruggersi la vita, e provare a distruggere la tua, tu non permetterglielo”.
Ho ancora molto da imparare.
Intanto i suggerimenti e i consigli di chi ha più esperienza di me continuano ad arrivare, da soli o richiesti, e io ne sono avida; li devo ancora assimilare tutti.
Devo riuscire a essere sintetica, a volte basta una domanda: purché sia quella giusta. Provo a esercitarmi nell’arte della sintesi con non pochi sforzi e difficoltà, visto che quel dono non è mai stato mio.
A volte affiora la paura di non essere empatica, di non riuscire a colpire. Ma subito arriva quel consiglio sperato, il messaggio che ti solleva dalla crisi in cui l’insicurezza ti ha fatto sprofondare: “Mettiti lì come sai fare te, togliti tutte le curiosità che hai su una persona come se fosse un tuo amico, una storia da scoprire, una storia da raccontare. Sii te stessa che vuol sapere veramente cosa c’è dietro queste storie: le persone, le emozioni, le impressioni, le sensazioni. Dimenticati della telecamera, dimenticati che sei una giornalista, e fai te che vuoi conoscere quella persona e scoprire cos’ha da raccontarti”.
Grazie a questo incoraggiamento prezioso, l’intervista successiva è andata bene.
Ho capito che la pazienza ripaga. E che alcune risposte arrivano dopo, non quando le vuoi, non quando ne avresti bisogno; ma se hai pazienza, forse arriveranno. Nel frattempo, devi imparare a stare, a lavorare senza.
*Giulia Elia é finalista della sesta edizione del Premio Morrione con il progetto di video inchiesta “Tabù HIV”
Tabù HIV: la pazienza, in fondo, alla fine paga – diario dell’inchiesta finalista
Posted on 26 giugno 2017
di Giulia Elia*
Tra il fumo di una chiacchierata in una stanza della Procura di Roma in piazzale Clodio, finalmente un’immagine mi fa davvero intuire per la prima volta cosa può significare nell’intimo, vivere con HIV. “Se non le chiedi, non ti daranno mai le risposte che vuoi”. La cosa più difficile è forse proprio chiedere le cose giuste.
Inizio a essere pratica di processi e frequentatrice assidua di aule di tribunale; mi appassiono al diritto penale, al diritto di esprimersi e a quello di dire, sempre e nonostante. E comincio a pensare che mi sarebbe stato utile studiare giurisprudenza.
Da spettatrice, assisto alle udienze che si scaglionano con costanza: in quest’aula, in questo luogo che è un non luogo, cercarsi le storie diventa un impegnativo esercizio di caparbietà, perseveranza, garbate insistenze, resilienze. Ma dopo un mese di estenuanti corteggiamenti, quando finalmente i nodi si sciolgono e la tua testardaggine l’ha avuta vinta nel farti concedere l’intervista, allora significa che hai provato su te stessa che la pazienza, in fondo, paga. Anche con gli avvocati: è uno spiraglio di felicità, forse riesco ad avere Lui! – così mi hanno detto – “Ma finché non premi Rec”, mi mette in guardia Pablo per evitarmi future frustrazioni, “Devi pensare che non ce l’hai ancora”. E per ora rimane soltanto un sogno, da realizzare.
Se la pazienza paga e le interviste entrano è sicuramente una piacevole soddisfazione: ma la vera meraviglia è quando le persone ti insegnano qualcosa attraverso la loro esperienza e ti regalano un pezzetto del loro vissuto, con l’esempio e le parole. Chiacchierandoci, mi convinco sempre di più di una cosa. Non ti distrugge la malattia, ti distrugge l’idea di essere malata. “Non sei la tua malattia, è una cosa molto difficile da capire, ma dipende come la vivi tu. Se ti identifichi con la tua malattia, tutti ti identificheranno così. Se qualcuno vuole distruggersi la vita, e provare a distruggere la tua, tu non permetterglielo”.
Ho ancora molto da imparare.
Intanto i suggerimenti e i consigli di chi ha più esperienza di me continuano ad arrivare, da soli o richiesti, e io ne sono avida; li devo ancora assimilare tutti.
Devo riuscire a essere sintetica, a volte basta una domanda: purché sia quella giusta. Provo a esercitarmi nell’arte della sintesi con non pochi sforzi e difficoltà, visto che quel dono non è mai stato mio.
A volte affiora la paura di non essere empatica, di non riuscire a colpire. Ma subito arriva quel consiglio sperato, il messaggio che ti solleva dalla crisi in cui l’insicurezza ti ha fatto sprofondare: “Mettiti lì come sai fare te, togliti tutte le curiosità che hai su una persona come se fosse un tuo amico, una storia da scoprire, una storia da raccontare. Sii te stessa che vuol sapere veramente cosa c’è dietro queste storie: le persone, le emozioni, le impressioni, le sensazioni. Dimenticati della telecamera, dimenticati che sei una giornalista, e fai te che vuoi conoscere quella persona e scoprire cos’ha da raccontarti”.
Grazie a questo incoraggiamento prezioso, l’intervista successiva è andata bene.
Ho capito che la pazienza ripaga. E che alcune risposte arrivano dopo, non quando le vuoi, non quando ne avresti bisogno; ma se hai pazienza, forse arriveranno. Nel frattempo, devi imparare a stare, a lavorare senza.
*Giulia Elia é finalista della sesta edizione del Premio Morrione con il progetto di video inchiesta “Tabù HIV”