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Rifugiati, falso che siano il ‘cavallo di Troia’ del terrorismo

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[Traduzione a cura di Luciana Buttini dall’articolo originale di Jeff Crisp pubblicato su openDemocracy

 

Nell’Ordine Esecutivo firmato lo scorso 27 gennaio, il presidente americano Donald J. Trump, affermava che “dopo l’11 settembre 2001 diverse persone di origine straniera sono state condannate o coinvolte in crimini legati al terrorismo… compresi coloro che sono riusciti a entrare negli Stati Uniti attraverso il programma di reinsediamento dei rifugiati.”

Anche l’Europol, l’Agenzia dell’Unione Europea incaricata dell’applicazione della legge, ha sostenuto con determinazione l’idea secondo la quale esista uno stretto legame tra l’arrivo dei profughi e l’insorgenza di attacchi terroristici. Infatti, in uno dei suoi rapporti, si legge che “un pericolo reale e imminente è la possibilità che elementi della diaspora dei rifugiati siriani diventino vulnerabili alla radicalizzazione una volta in Europa e siano specificamente obiettivo dei reclutatori dello Stato Islamico.” Sulla base di tale presupposto, l’Agenzia ha annunciato recentemente che “in futuro sarà in grado di accedere alla banca dati Eurodac contenente le impronte digitali dei rifugiati e richiedenti asilo, in modo da individuare e prevenire possibili reati terroristici.”

A seguito di ciò, politici autoritari come il Primo ministro ungherese Viktor Orbán, hanno sfruttato all’estremo tali dichiarazioni, definendo il fenomeno dei rifugiati e dei migranti come “il cavallo di Troia del terrorismo.” Anche le stesse organizzazioni estremiste erano impazienti di riuscire a far passare nell’opinione pubblica questo scenario agghiacciante. Una prova ne è la dichiarazione con la quale, tempo fa, lo Stato Islamico annunciava di essere riuscito a infiltrare 4.000 suoi militanti tra i profughi che viaggiavano sui barconi diretti in Europa.

Quando il detto ‘non c’è fumo senza arrosto’ non funziona

Contrariamente a quanto dichiarato finora, il numero dei rifugiati che hanno commesso atti terroristici risulta, invece, irrilevante. Come dimostra uno studio approfondito condotto dal Cato Institute, tra il 1975 e il 2015 sono stati più di 3,2 milioni i profughi accolti negli Stati Uniti. Durante questo periodo, solo 20 di loro avevano tentato o erano riusciti a portare a termine attacchi terroristici. Ma sono stati soltanto tre i cittadini americani rimasti uccisi per mano di ‘terroristi rifugiati’ e tali assassini sono stati tutti commessi dagli esuli cubani durante gli anni Settanta.

In realtà, pur sostenendo per altri versi le politiche di Trump, il Cato Institute, uno dei più importanti think tank libertari americani, ha dedotto che il tentativo del presidente statunitense di sospendere il piano di reinsediamento dei musulmani per motivi terroristici fosse volto a dare “risposta a una minaccia fantasma.”

Conclusioni simili possono anche essere tratte da informazioni raccolte altrove. Infatti, un nuovo studio dell’Istituto Universitario Europeo (IUE), mette in luce come “al momento, sulla base delle migliori prove disponibili, si può dire che la principale minaccia terroristica nei confronti dei Paesi occidentali non proviene affatto dai rifugiati arrivati di recente, quanto dagli estremisti che vivono e sono cresciuti sul suolo nazionale.

Il capo dell’Intelligence australiana condivide quanto emerso dalla ricerca e spiega “di non aver trovato alcuna prova che suggerisca la presenza di un presunto legame tra lo sbarco dei profughi e il manifestarsi di attacchi terroristici o addirittura il rischio di radicalizzazione dei loro figli.”

Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati

Un’ eccezione a questa regola è il caso dell’attentatore di Manchester, Salman Abedi, cittadino britannico dalla nascita, di origini libiche, il cui padre aveva ottenuto lo status di rifugiato nel Paese. A quanto pare, sono sempre più numerose le prove che mostrano come la radicalizzazione di Abedi sia avvenuta durante un viaggio in Libia, la patria dei suoi genitori, un soggiorno che era stato consentito – e forse anche aiutato – dai servizi di Intelligence britannici.

A tal proposito, è bene comprendere l’importanza del diritto internazionale in materia di rifugiati in quanto fornisce agli Stati tutte le disposizioni necessarie per poter smentire l’esistenza di un potenziale legame tra l’arrivo dei profughi e il terrorismo.

Il primo articolo della Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati del 1951 consente agli Stati di negare lo status di rifugiato a chiunque abbia commesso “crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità o gravi reati non politici.” L’articolo 2 afferma che ogni rifugiato ha l’obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti del Paese di asilo, nonché “ai provvedimenti adottati per il mantenimento dell’ordine pubblico.”

L’articolo 9 conferisce agli Stati il potere di detenere i profughi “al fine di garantire la sicurezza nazionale”, mentre l’articolo 32 consente di poter espellere i rifugiati e sospendere il giusto processo “per motivi impellenti di sicurezza nazionale.”

La Convenzione sui Rifugiati è, dunque, uno strumento volto a rafforzare e non a compromettere la sicurezza degli Stati e dei loro cittadini. Al tempo stesso, fornisce un mezzo essenziale per offrire protezione e soluzioni a lungo termine a civili innocenti che altrimenti correrebbero seri rischi.

Pertanto, piuttosto che denigrare il lavoro dell’Istituto dell’asilo alludendo al suo potere di facilitare o perfino incoraggiare il terrorismo, onoriamo le milioni di vite che ha salvato, comprese quelle minacciate dall’estremismo violento. Così come ha recentemente concluso il Servizio di Sicurezza e Intelligence danese “il rischio di trovare potenziali terroristi tra i rifugiati che entrano attualmente in Danimarca è davvero basso. In realtà, la maggior parte di loro fuggono da movimenti militanti islamici.

Da vociglobali


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