Riforma elettorale. Vademecum in sette punti per gli apprendisti stregoni

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  1. La nostra classe politica è riuscita nel tempo ad emanciparsi progressivamente (e ormai quasi completamente) dal dovere di rendere conto ai cittadini del proprio operato.

Così i suoi componenti, allo stato delle cose, non possono essere complessivamente o individualmente giudicati – premiati e rieletti o puniti e non rieletti – nelle elezioni successive a quelle in cui hanno conquistato le funzioni di rappresentante parlamentare dei cittadini. Fra le molte le anomalie che caratterizzano e rendono per i più incomprensibile il “caso” italiano, questa è quella che più lo segna e che, generalmente, meno viene compresa in tutte le sue nefaste conseguenze. Negli altri paesi occidentali, il malgoverno, il cattivo comportamento o semplicemente il mancato mantenimento delle promesse elettorali può venire e viene abitualmente sanzionato con il voto. Da noi, no. Il processo che ha determinato questo affrancamento della classe politica e delle istituzioni repubblicane dalla normale dinamica consenso/sanzione ha origini molteplici e antiche. Ai primordi e sino alla seconda metà degli anni Settanta, si è in parte realizzato con la conventio ad excludendum nei confronti del Pci; poi, diffusamente, con la clientela e il cosiddetto voto di scambio, con la corruzione e con comportamenti che hanno stimolato fra l’altro l’omologazione dei partiti e il fenomeno dell’astensionismo; infine, con la marmellata politica-Tv-giornali e con norme elettorali specifiche. Si è arrivati al punto, com’è noto, di privare l’elettore della possibilità di mettere la croce su un nome in una lista di nomi comunque decisi da ristrettissime oligarchie di partiti, svilendo il Parlamento ad assemblea di “nominati”. Perciò degli italiani, per essere giusti, non si può dire esattamente che “hanno i governanti che si meritano”. Né si può dire dell’Italia che è – come spesso scappa di dire ai più, di fronte ai numerosi casi quotidiani di inefficienza e di ingiustizia – “un Paese di merda”. Così, in effetti, si mettono nello stesso sacco carnefici più o meno feroci e vittime più o meno corrive.

  1. L’esito di un sistema politico-istituzionale è determinato solo in parte dalle norme elettorali, più prodotte che produttrici di efficienza e virtù o, al contrario, di instabilità e vizi di sistema.

Concorrono a questo esito le componenti più varie: la storia del Paese, la cultura, l’economia, l’intero assetto istituzionale centrale e locale, i partiti, ecc. ecc.. Anche per questo, non è possibile trasferire un sistema elettorale e tanto meno sue singole norme da un paese all’altro, magari con l’illusione o l’obiettivo mistificante di ricavarne risultati analoghi. L’eccesso di attenzione e di interesse della nostra classe politica, dagli anni Novanta del secolo scorso ad oggi, per “riforme elettorali” attuate o (perlopiù) mancate, svela da solo il tentativo di scaricare sulle norme la responsabilità dell’inadeguatezza del sistema e di se stessa. Periodicamente,  qualcuno spera o si illude di poter rigenerare il sistema passando dal proporzionale al maggioritario o viceversa, e facendo giochi di prestigio con collegi, circoscrizioni, soglie, voto congiunto o disgiunto, listini, ripescaggi, raccolta di firme, preferenze, candidature bloccate, ecc.. Ma quasi sempre i “riformatori” sanno perfettamente di ingannare, facendo passare per battaglie di civiltà o per geniali innovazioni meccanismi di raccolta e conteggio dei voti in realtà utili alla propria parte e carriera, dannosi per gli avversari e comunque estranei agli interessi dell’elettorato. Oltre che deleteri, perché incentivano la disaffezione politica e l’astensionismo elettorale.

  1. Le regole del gioco andrebbero evidentemente definite, non da governi o maggioranze precostituite, ma dal Parlamento e tendenzialmente dalla totalità delle forze politiche.

Devono essere eque, evitando discriminazioni e regolamenti di conti tra le componenti parlamentari. Non debbono pretendere di ingessare e di direzionare la manifestazione dei consensi e dei dissensi in base a schemi ideologici o politologici, che peraltro nascondono quasi sempre interessi di parte. Per la stessa ragione non debbono “fotografare” l’esistente (c’è o ci sarebbe il bipolarismo? facciamo una legge bipolare; hop, ci sono tre forze che si equivalgono e allora disegniamo un sistema tripolare). Al contrario, le norme debbono considerare anche legittimi interessi non rappresentati in Parlamento e persino quelli di aggregazioni non ancora esistenti ma che potrebbero già esistere, in potenza, nella società. Nella “riforma” in corso di approvazione (o disapprovazione, si vedrà), è stata virtuosamente coinvolta, per la prima volta dopo decenni, la gran parte della rappresentanza parlamentare. Nonostante questo – come si è visto anche con le rotture interne alle forze di governo e con la massiccia ricomparsa dei “franchi tiratori” – sono emerse, meno virtuosamente, norme penalizzanti per i partiti minori tenuti fuori dalla trattativa e per istanze generalmente considerate molto sentite dall’elettorato.

  1. Le norme elettorali hanno un senso e svolgono le funzioni che spetta loro, se ispirate al massimo di rappresentatività del Parlamento e, insieme, al massimo di qualità e stabilità del governo.

Per la verità, esse originariamente (e alla radice) servono, in un sistema come quello italiano, ad eleggere i rappresentanti del popolo. Punto. La formazione dei governi è infatti compito ed onere dell’assemblea dei rappresentanti. Spesso, anche in Italia, si è esagerato in un senso o nell’altro, sacrificando una delle due componenti a vantaggio (solo apparente) dell’altra. Così si possono avere parlamenti molto rappresentativi ma troppo “frantumati”, perciò incapaci di determinare la formazione di governi all’altezza delle problematiche sociali ed economiche, e quindi alla fine inincisivi anche sul piano della sostanziale rappresentanza delle istanze dell’elettorato. O al contrario si possono avere governi “forti” talmente distanti dalle esigenze e aspettative dei cittadini da determinare contraccolpi sia a livello sociale sia, in conseguenza, all’interno del sistema. Insomma, se si vuole la rappresentatività non puoi fare a meno della governabilità, e viceversa.

  1. Da sempre ci si lamenta in Italia dello scarso livello di “governabilità”, ma gli interventi sinora attuati o tentati hanno riguardato, paradossalmente, sempre e solo l’altro corno del problema, la rappresentanza.

Certo, fra questi due aspetti, ci sono ovvie e forti interconnessioni. Ma possibile che niente si potesse fare, per esempio, per la introduzione della “sfiducia  costruttiva”? E poi: perché abbiamo regolamenti parlamentari che consentono ancora, nell’attuale legislatura  – come ci raccontano le cronache – la formazione di ben “venticinque gruppi parlamentari”? Questa “frantumazione” della rappresentanza non è nata per un eccesso di rappresentatività prevista nelle norme elettorali e scaturita dalle urne, ma è stata costruita (e potrebbe essere annullata) negli uffici di Montecitorio e Palazzo Madama o, più esattamente, nelle sedi di partito. Insomma molto, per la governabilità, avrebbe potuto e potrebbe essere fatto senza la necessità di ferire mortalmente la rappresentatività.

  1. Il proporzionale non significa di per sé frantumazione e ingovernabilità. E il maggioritario non significa di per sé stabilità e governabilità.

Si pensi, nel primo caso, alla Germania proporzionalista. E nel secondo, all’esito di questi venticinque anni di santificazione del maggioritario in Italia.

  1. Si è sempre rivelata una pia illusione la pretesa di confezionare specifiche norme elettorali per controllare la rappresentanza democratica.

Specie in società complesse come quella italiana (o francese o tedesca, ecc.), inserite in un contesto culturale, economico e istituzionale come quello europeo, e in un mondo interconnesso come l’attuale, non è possibile ridurre la rappresentanza ad un ruolo stabilmente servile di un progetto politico o di un sistema di potere. Il bisogno di rappresentanza effettiva è insopprimibile. Riemerge sempre, anche nelle condizioni apparentemente più proibitive.


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