La stessa sensazione l’ho avuta l’anno scorso dopo la tragedia del bus spagnolo pieno di studenti erasmus. E anche dopo l’incendio di Londra alla Greenfell Tower la cosa che mi pesa di più di queste ore è il riconoscersi nelle vite dei dispersi, delle vittime. Questo credo che renda per la nostra generazione tutto molto più amplificato, più vicino. L’iper condivisione e connessione del nostro mondo attraverso i social e la tecnologia permettono ai media di ricostruire le vite di ognuno di noi passo a passo, dalle foto nei momenti felici di anni passati fino alle ultime parole dette prima di morire. Non ho capito bene che sentimento mi susciti questa cosa, se di spavento, se di sorpresa, non so se sia giusto e non so se sia sbagliato. Ci penso dall’anno scorso e davvero sono combattuto: se sia peggio per l’invasione forse esagerata in giovani vite spezzate o se questa cosa possa essere in un qualche modo utile per aprir un dibattito generazionale meno superficiale.
Trovo di sicuro una differenza caratterizzante tra la tragedia spagnola e quella londinese che dopo ore di riflessione sono riuscito ad isolatare e che credo sia giusto sottolineare. E’ la differenza di spensieratezza tra le vittime erasmus di ritorno da una festa, in un periodo della vita tutto sommato ancora ovattato e protetto verso l’esterno, e quelle invece della quotidianità popolare della Greenfell Tower. Seppur i racconti sui media delle vittime italiane di entrambe le vicende siano molti simili credo che ci siano differenze. Tra chi nell’erasmus cercava un valore aggiunto per potersi giocare poi al meglio le proprie carte nel proprio futuro post laurea e chi, una volta laureato, ha dovuto migrare in un altro Paese per trovare un futuro all’altezza delle proprie aspettative. E all’inizio di questa tragedia londinese, quando non si conoscevano ancora i contorni delle vite multietcniche di quella torre che il Corriere della Sera ha definito la Spoon River londinese, ho sperato che i due giovani italiani fossero stati due migranti per scelta e non per necessità. Non avrebbe cambiato nulla in fin dei conti ma mi avrebbe fatto vedere questa tragedia come meno ingiusta, più frutto della casualità, della sfiga. Per questo credo che l’avvocato della famiglia Trevisan invece abbia fatto bene a spiegare al mondo che Gloria non fosse migrata a Londra per sfizio ma per aiutare economicamente la propria famiglia in difficoltà; non per un anno sabbatico all’estero ma migrata perchè in Italia per un neo architetto con il massimo dei voti la prospettiva che offriva il grande e produttivo Nord Italia erano 300 euro mensili e un bagaglio di insicurezze sociali. E credo che facciano bene i giornali inglesi a rimarcare il valore classista che ha questa tragedia, e perchè -così- poteva succedere solo lì.
E’ inevitabile ma ogni volta che succede una tragedia così penso ai tanti amici che chi per scelta e chi perchè senza scelta hanno preso la via dell’estero. E ogni volta involontariamente sovrappongo le foto tra chi non ho mai conosciuto ma nella tragedia mi sembra molto vicino e chi invece conosco benissimo anche se vive ugualmente lontano.
E’ sbagliato e non è così ma a me Marco e Gloria sembra di conoscerli da sempre: sembra di percepire le insicurezze dell’età, il sentimento di abbandono per tutta una generazione, la voglia di stare insieme nel reciproco affetto nonostante tutto e la ricerca intima di un proprio posto dentro una qualche società. E’ una delle tante storie delle nostre generazioni, perchè non sono più solo una ma iniziano ad essere diverse; quelle storie che forse dovremmo raccontarci di più tra di noi, con la crudeltà della realtà e senza retorica, per quel che sono. E dovremmo essere schietti e lucidi anche per analizzare i compromessi e i ritmi di lavoro sopportati da chi un posto ce lo ha, ma è costretto a vivere per lavorare con più ore lavorate che quelle che si trovano su quadrante di un orologio. Forse dovremmo parlarci di più, forse dovremmo fare qualcosa in più per definirci, per avere consapevolezza di cosa siamo, di quanti siamo, per capire cosa è giusto e sbagliato, per rivedicare tutti insieme un futuro degno, uno migliore,qui e non altrove. Lo dico da persona conscia di essere nel segmento dei più fortunati tra i miei coetanei ma che prova un’ immensa rabbia per come questo Paese sta trattando da anni la più istruita, e forse quella con maggior potenziale tra tutte, generazione della storia della nostra nazione.
Forse ad una certa dovremmo dire basta e riprenderci in un qualche modo un presente per cui vale la pena faticare, senza eccessi, e che ci permetta di progettare un futuro e che sia un futuro degno.
Non so come e quando, ma dovremo farlo forse anche per ricordare quelli come Marco e Gloria che ora non posso più.