Ruggero Orlando, Enrico Cuccia, Alberto Moravia e Giorgio Amendola (nella foto): quattro italiani da esportazione, quattro simboli della nostra grandezza e dei nostri valori più nobili, quattro punti di riferimento per chi ha scelto, con coraggio, di non arrendersi alla barbarie dei nostri tempi. Hanno un punto in comune: sono tutti classe 1907, dunque quest’anno, se fossero ancora vivi, avrebbero compiuto centodieci anni.
Orlando e il racconto dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta: l’America di Hollywood e della speranza, di Kennedy e della Nuova Frontiera ma anche l’America della tragedia di Dallas, di Lyndon Johnson, della Guerra del Vietnam, delle rivolte giovanili, dei Figli dei fiori, delle università occupate e dello sbarco dell’uomo sulla luna. Un’America mitica e affascinante, padrona del mondo e nel cuore di tutti noi, con le sue innumerevoli contraddizioni e i suoi infiniti aspetti positivi e negativi. Un’America che questo grande giornalista seppe raccontare con passione e stile, garbo ed efficacia, contribuendo a portarci in casa un universo tanto entusiasmante quanto difficile da comprendere e, talvolta, persino da accettare.
Enrico Cuccia, invece, è stato il dominus di Mediobanca, del capitalismo relazionale italiano e di una certa Milano alto-borghese, convinta che i voti si contano e le azioni si pesano ma ben cosciente del fatto che le due cose non fossero scindibili.
Un uomo non certo di sinistra ma consapevole della complessità del mondo, del suo ruolo, dell’importanza che esso ricopriva nel contesto della società italiana e della necessità di difenderlo e mantenerne la massima autonomia da qualsivoglia condizionamento politico.
Alberto Pincherle, visto che Moravia è un nome d’arte, al netto di qualche opera minore e di non grande spessore scritta nella parte conclusiva della sua vita, è lo scrittore cui dobbiamo capolavori come i “Racconti romani” e “La ciociara”, ossia la versione letteraria del neo-realismo che, in parte, ha ispirato quella cinematografica, portata all’apice da De Sica, Rossellini, Germi e altri straordinari cineasti attivi fra gli anni Quaranta e i Sessanta, quando fortissima si avvertiva la necessità di costruire una memoria storica in grado di mettere il Paese al riparo da ogni forma di revisionismo.
E le pagine crude, potenti e, a tratti, rivoluzionarie di quest’intellettuale romano hanno indubbiamente rivoluzionato il panorama culturale italiano del dopoguerra, specie se si considera anche la sua capacità di costruire legami sociali e personali di notevole prestigio e di animare, da protagonista, il dibattito letterario e politico nel corso dei decenni.
Infine Amendola, figlio del liberale Giovanni Amendola, punto di riferimento della cosiddetta ala migliorista del PCI, intellettuale e politico raffinatissimo, uomo di incredibile audacia e rettitudine morale, personaggio dal carattere spigoloso e aspro come tutti coloro che hanno davvero un carattere e figura emblematica di una certa concrezione del mondo e della vita.
Se ne sono andati tutti e quattro, da troppo tempo, e, nell’anno in cui ricorre pure il centocinquantesimo anniversario della nascita di Arturo Toscanini, un altro italiano che ha tenuto alta la nostra bandiera nel mondo, avvertiamo più che mai la loro mancanza.
Perché di uomini di questa tempra, sia detto senza eccessi di nostalgia né mitizzazioni di sorta, purtroppo, non ne sono nati né, soprattutto, né sono stati formati più.