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Mappa della jihad in Africa: chi sono e dove seminano terrore

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In soli 10 anni l’attività terroristica in Africa è aumentata del 1000%. Un dato preoccupante che emerge dal report “Africa at a tipping point” della Fondazione Mo Ibrahim presentato in Marocco lo scorso 8 aprile. Tra i dieci Paesi più colpiti dal terrorismo nel 2015 ci sono Nigeria, Somalia, Egitto e Libia, secondo il Global Terrorism Index, e la furia della sola Boko Haram ha ucciso più di 12.000 civili in poco più di cinque anni, dal 2011 alle ultime rilevazioni effettuate sul territorio.

Il terrorismo, dunque, è anche un grave problema nel continente africano, al punto che già nel 1999 l’Unione africana aveva adottato un accordo mirato alla lotta e alla prevenzione del fenomeno terroristico, un patto integrato, nel 2014, con un protocollo opzionale per implementare i principi sanciti nel 1999. Eppure, ad oggi, Nigeria, Kenya, Somalia e Uganda non hanno ancora ratificato il protocollo.

Il report della Fondazione Mo Ibrahim mette in guardia: i giovani in molti Paesi africani si sentono privi di prospettive economiche e di speranza nel futuro. In questo contesto, lo status e la possibilità di guadagno immediato che le organizzazioni terroristiche offrono funziona come un fattore d’attrazione ancor più che la dimensione ideologica o l’adesione convinta ai dettami dell’islamismo.

Tra gli altri, i gruppi più ricchi, economicamente e non solo, sono al-Shabaab, attivo principalmente in Somalia, e Boko Haram, attivo nel nord-est della Nigeria, capaci di provocare dal 2006 al 2015, rispettivamente, 5.804 e 17.093 morti. Se queste due organizzazioni terroristiche sono fortemente inserite nel tessuto sociale dei Paesi d’origine, non mancano i gruppi affiliati ai grandi gruppi terroristici internazionali, al Qaeda e l’ISIS, che ha visto crescere la propria influenza ed efficacia in questi ultimi anni, soprattutto nel Magreb e in seguito ai due terribili attentati del 2016 in Tunisia.

Boko Haram, contro ogni influenza occidentale

Boko haram terrorismo africa
Fonte: Wikimedia Commons

Boko Haram è nata nel 2002 nello stato del Borno dove Mohamed Yusuf, un leader religioso raccolse intorno a sé un gruppo di fedeli pronti ad adottare anche la violenza per opporsi a tutto ciò che contrasta con il disegno di uno Stato fondato sulla Sharia nel Nord-Est della Nigeria. Ucciso nel 2009, da allora il leader di Boko Haram è stato a lungo Abubakar Shekau e da allora il gruppo si è fatto ancor più violento seminando terrore nei villaggi. Tra imboscate e scorribande, nessuno poteva ritenersi al sicuro, nemmeno le 276 liceali del villaggio di Chibok rapite il 14 aprile 2014.

Il nome con il quale è nota l’organizzazione terroristica significa l’educazione occidentale è peccato, tuttavia la dicitura Boko Haram è stata sostituita, a partire dal 2015, con Islamic State’s West Africa Province, segno dell’adesione formale dell’organizzazione nigeriana alla grande battaglia globale del califfato di Al Baghdadi. La fusione con l’ISIS non ha, tuttavia, rafforzato la formazione, al contrario ha aperto una fase di crisi determinata anche dall’imposizione da parte dello Stato Islamico, lo scorso agosto, di un nuovo leader, Abu Musab al-Barnawi, figlio di Yusuf, ora impegnato in una duplice missione: eliminare le sacche di dissenso interne e conquistare la fiducia della popolazione rimasta nel Nord-Est della Nigeria. Di fatto, braccata dall’esercito nigeriano nella foresta Sambisa, indebolita dagli attacchi militari e dalle divisioni interne, oggi Boko Haram sembra aver cambiato strategia, mirando a colpire le forze di sicurezza governative e risparmiando donne, bambini e civili.

Sebbene il presidente nigeriano assicuri che Boko Haram sia stata “tecnicamente” sconfitta, i Governi occidentali ritengono che il gruppo sia ancora in grado di colpire i civili e, dunque, non sia ancora tempo di considerare sicura l’area.

Il ritorno di al-Shabaab

Harakat al Shabaab al Mujaahidiin, nota anche semplicemente come al-Shabaab (gioventù, in lingua somala), è un gruppo jihadista sunnita nato in Somalia nel 2006 con l’obiettivo di promuovere il nazionalismo somalo, la jihad globale e istituire uno Stato islamico fondato sul rispetto della Sharia. Da allora ha vissuto fortune alterne, infatti per alcuni anni la missione dell’Unione africana nel Paese, AMISOM, è riuscita a contenere le milizie, riducendo il numero di attacchi e di morti.

Dall’inizio del 2016, però, l’organizzazione sembra aver acquisito nuova linfa, conquistando la città portuale di Merca, la regione del Garad, nel Puntiland, alcune zone rurali della Somalia centro-meridionale e la città di El Bur. È cresciuta anche la capacità di colpire obiettivi civili: il 14 giugno, per esempio, un commando ha preso d’assalto un ristorante di Mogadiscio, uccidendo 31 persone, ma si tratta solo di uno degli attacchi che ha reso la capitale somala una città fantasma diventata molto pericolosa.

Al-Shabaab, inoltre, ha attaccato più volte anche i Paesi vicini, Kenya e Uganda in particolare, “colpevoli” di interferire con gli affari somali inviando truppe a sostegno dell’AMISOM. Tra gli attentati più gravi, ricordiamo quello realizzato nel campus dell’università di Garissa, in Kenya, costato la vita a 147 giovani.

Appare, dunque, inalterata la capacità di colpire obiettivi civili e militari del gruppo jihadista affiliato ad Al Qaeda dal 2012, attentati che sembrano essersi intensificati dopo le elezioni che hanno sancito, lo scorso febbraio, la vittoria di  Mohamed Abdullahi Mohamed “Farmajo” la cui presidenza, appena avviata, dovrà fare i conti con la minaccia minatoria jihadista.

Un gruppo di ex miliziani di al-Shabaab. Fonte: Wikimedia Commons

Al Qaeda unita nel Sahel

A partire dal 2015 l’intera area dell’Africa Sub-Sahariana ha visto comparire molti gruppi terroristici di matrice islamista capaci di colpire in Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio: Al Mourabitoun è il gruppo responsabile dell’attacco dell’hotel “Radisson Blue”  a Bamako dove persero la vita 22 civili, mentre i mujaheddin dell’Emirato del Sahara hanno rivendicato altri attentati di minor entità non solo in Mali ma anche nei Paesi limitrofi. La formazione più radicata è al Qaeda nel Maghreb islamico (AQIM) e il suo obiettivo, in questa fase, sembra essere quello di unificare sotto la sua bandiera tutte le piccole emanazioni della jihad islamista dell’area a partire, già nel 2015, dalla fusione con Al Mourabitoun.

Gli analisti non sono concordi nell’individuare quale sia il principale obiettivo di questo fenomeno accentratore. Sicuramente gioca un ruolo fondamentale la necessità di formalizzare relazioni ed equilibri di potere che già sono in essere a partire dalla guerra in Mali, in particolare nel periodo tra l’aprile 2012 e il gennaio 2013 quando, nel Nord del Paese, i gruppi jihadisti isolarono la componente tuareg del fronte contro il Governo e puntarono direttamente la capitale, Bamako, provocando la reazione militare francese al fianco del Governo maliano.

Altri, invece, sostengono che la formazione del Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani (GSIM), che include Ansar Dine, Fronte di liberazione della Macina, Mujaheddin dell’Emirato del Sahara e la Katibah al-Mourabitun, sia la risposta concreta di Al Qaeda all’influenza crescente nella regione di alcuni piccoli gruppi affiliati allo Stato Islamico.

Infatti, lo Stato Islamico del Grande Sahara (ISGS) è attivo nell’area di confine tra Mali, Burkina Faso e Niger, e diversi rapporti confermano che si sono intensificate le relazioni con Boko Haram per estendere l’influenza dell’ISIS sul Sahel.

I tentativi di infiltrazione dell’ISIS

Nel giugno 2016, l’ISIS ha dichiarato di essere attivo in sette Paesi africani: in particolare, attraverso un’infografica diffusa dall’agenzia Amaq, dichiarava di avere un “controllo medio” su Nigeria, Libia, Egitto, Somalia e Niger, e di avere prove della presenza di “cover units” in Tunisia e Algeria.

Il quartier generale dello “Stato Islamico della Siria e del Levante lontano da Levante” è proprio la Libia. Dopo la forte instabilità successiva alla caduta del regime di Gheddafi, il Paese ha offerto, infatti, e gruppi e milizie di vario tipo un ampio margine di manovra. Dal punto di vista dell’estensione del territorio controllato, il momento di maggior successo dell’ISIS in Libia risale all’inverno del 2016 quando le milizie controllavano tre città importanti come Sirte, Tobruk e Derna.

Il secondo Paese africano dove l’ISIS sembra avere basi per agire in maniera pericolosa è l’Egitto dove la Provincia del Sinai dello Stato islamico ha rivendicato diversi attentati che hanno colpito la comunità copta. Il gruppo responsabile delle stragi non è altro che l’evoluzione della formazione Ansar Bayt al-Maqdis che, nel dicembre 2014, ha giurato fedeltà al califfato di Al Baghdadi mettendo di fatto a disposizione dello Stato Islamico i 2.000 uomini della milizia, attivi soprattutto nel Nord della regione del Sinai.

I tentativi di infiltrazione e proselitismo dell’ISIS in Africa proseguono, poi, in Tunisia e Algeria con particolare successo soprattutto dal punto di vista del reclutamento. Infatti, la Tunisia è oggi il Paese dal quale è partito il maggior numero di foreign fighters pronti ad unirsi al califfato in Siria e Iraq, più di 5.000 persone secondo un report delle Nazioni Unite del 2015.

Il problema più urgente, tuttavia, è rappresentato dal ritorno e dal reinserimento nella società dei miliziani in seguito alla sconfitte subite sul campo tra Raqqa e Mosul. Le soluzioni proposte sono differenti: c’è chi suggerisce di arrestare chiunque rimetta piede nel Paese dopo essere stato all’estero per “compiere atti terroristici”, chi ipotizza di togliere loro la cittadinanza, chi propone la strada della sorveglianza, chi vuole chiudere le moschee “radicali”.

In Algeria, invece, sembra essere ancora prevalente l’influenza di Al Qaeda e del GSIM che, invece, hanno subito alcune battute d’arresto nella zona tra Niger, Nigeria, Ciad e Camerun dove il gruppo jihadista che gode di miglior salute è Boko Haram-Provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico.

In Somalia, invece, solo una piccola fazione di al-Shabaab, guidata da Abdiqadir Mumin, si è distaccata per unirsi all’ISIS. Si tratta di un gruppo di miliziani arroccati nella zona montuosa del Galgala dove hanno organizzato alcuni campi di addestramento e formato le prime unità. Tuttavia il gruppo, che ha preso il nome di Jahba East Africa, è minacciato, in primo luogo, da al-Alminyat, una forza di “polizia” di al-Shabaab impegnata ad imporre la linea ortodossa a tutti i dissidenti.

Wikipedia: Mappa del tasso di rischio terrorismo sulla base dei dati del Global Terrorism Index 2016.

La mappa del jihadismo in Africa si completa, infine, con tutte quelle piccole realtà locali espressione di un disagio sociale locale. Laddove esistono ingiustizie, tensioni, povertà e diseguaglianze, il richiamo dell’ideologia solida del terrore e della propaganda islamista sapranno fare proseliti.

Il terrorismo, dunque, rischia di attecchire, come un parassita, su questioni che potrebbero e dovrebbero essere risolte senza ricorrere alla violenza: come sottolinea Medhane Tadesse in un articolo di Pambazuka tradotto da Voci Globali, “Per quanto la radicalizzazione si avvalga di un fertile terreno interno, le radici ideologiche e il supporto finanziario dei gruppi estremisti violenti si trovano al di fuori della regione, e dato che qualsiasi politica riguardo alla radicalizzazione e all’estremismo violento ha avuto come conseguenza che tali problemi siano stati ignorati, è improbabile che la politica raggiunga gli obiettivi prefissati“.

Le soluzioni, piuttosto, vanno ricercate proprio in politiche attive e propositive che vadano a trattare il fenomeno nella sua complessità. “Al centro della strategia per contrastare la radicalizzazione e l’estremismo estremo – continua il ricercatore – c’è la comprensione della natura della loro attrattiva e delle loro vulnerabilità e successivamente la diminuzione del loro impatto sull’evoluzione dello Stato e del sistema internazionale.

Da vociglobali


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