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La scomparsa di Peter Bondanella (1943-2017)

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Come fu che arrivò da me a Cinecittà? Era stato Fellini a ‘girarmelo’ in ufficio quando lui era andato a trovarlo sul set, o io stesso l’avevo introdotto al regista occupato in quel momento nelle riprese di E la nave va? Venendo in Italia dalla Indiana University, Stati Uniti, il professore americano aveva preso in affitto l’appartamento di Aldo Tassone, un critico cinematografico che a quel tempo organizzava a Firenze la celebre rassegna annuale del cinema francese, insieme alla moglie Françoise Pieri, parigina e molto carina, oltre che laureata alla Sorbonne con una tesi sulle collaborazioni di Federico al Marc’Aurelio, all’inizio della sua carriera. I coniugi Tassone che trascorrevano lunghi periodo in Francia, gli avevano dunque lasciata la loro casa, traboccante di libri e di videocassette con centinaia di film registrati. Un pittoresco quartierino ai margini di Trastevere, in via di Sant’Onofrio, proprio al termine di via della Lungara alle pendici del Gianicolo e a un passo da San Pietro. Una strada chiusa, un luogo molto romantico a cui si accedeva da una scalinata e poi attraversando una porticina in ferro che immetteva dentro una fuga di cortili verdeggianti di piante, sentieri, scalette, fino a quando appariva il portoncino di casa in vetro e ferro battuto.  Davanti ai gradini di accesso, indolenti, sostavano i gatti a sorvegliare la soglia, come in una antica favola quirite.  Quante spaghettate alle vongole veraci in quella casa, divorate sul nobile tavolo di noce aduso a codici antichi, libri e scartoffie di studio! Peter aveva imparato a cucinare le vongole con molta abilità, istruito dalla stessa signora della pescheria che gliele vendeva freschissime. Metteva sul fuoco la padella grande dentro cui soffocava i molluschi sotto uno strato spesso di prezzemolo e un ampio coperchio, perché si estenuassero nel proprio brodo marino. Infine vi calava gli spaghetti al dente, mantecandoli al punto giusto, e li serviva ben conditi con un ultimo giro d’olio d’oliva crudo. Nei calici il vino bianco, freddo di cantina, era già stato versato per brindare a Roma, la Dea che ci ospitava, prima di tuffarci nel voluttuoso corpo a corpo armati di forchetta, come Alberto Sordi/Nando Meniconi nel film di Steno “Un americano a Roma”.

Lo so, per ricordare degnamente Peter Bondanella, il docente americano di italianistica che ci ha appena lasciato, troppo, troppo presto, dovrei parlare di cinema e non di vongole. Era lo studioso d’oltreoceano più appassionano, più informato, più dotto, più incontentabile e accanito del cinema italiano. Un autentico raffinato specialista, che infatti tra il serio e il faceto rivendicava per sé, meritatissimo, il Cavalierato della Repubblica, senza riuscire però a ottenerlo, chissà mai perché, avendo agito in tutta la vita professionale quale ambasciatore infaticabile e preparatissimo della nostra cultura in USA.

Ma riprendiamo da capo. Peter Bondanella, di padre siciliano e di madre tedesca (puntigliosità e fuoco vivo, oltretutto Sagittario nello zodiaco), era un americano vero,  al quadrato, identificato con la sua nazione meglio di John Wayne; ma l’Italia gli era rimasta nei cromosomi e aveva imparato la nostra lingua a scuola, per irrinunciabile inclinazione. Amava l’Italia smisuratamente, l’aveva studiata e ristudiata in ogni piega, ne sapeva più di qualsiasi italiano anche ben istruito, e non si stancava mai di approfondirne la conoscenza del patrimonio artistico e letterario. Già molto malato, a ottobre scorso facendo uno sforzo superiore alle proprie energie, aveva voluto ancora una volta affrontare il volo per l’Italia, per congedarsi dagli amici più stretti quando era ancora lucido e  presentabile; ma soprattutto per poter visitare a Firenze il tanto sospirato Corridoio Vasariano, finalmente riaperto a un pubblico selezionato. Era sceso in un albergo in via de’ Cerretani, a un passo da Santa Maria del Fiore,  in modo di muoversi per il centro a piedi senza troppa pena, e aveva riassaporato la gioia di respirare l’aria della Città del Giglio, dove tornava ogni anno accompagnando i suoi studenti durante il programma estivo di insegnamento, e in seguito da pensionato, con sua moglie Julia Conaway immancabilmente al fianco, dividendosi tra la capitale dei Medici e quella dei Papi.

Peter Bondanella oltre che di cinema era uno studioso del Rinascimento e aveva tradotto, assieme a Julia, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori di Giorgio Vasari; nelle ultime settimane stava completando un’edizione ancora più estesa e arricchita, quando un male subdolo e devastante se l’è trascinato via. Ma l’opera, a parte gli ultimi ritocchi, era già conclusa, e vivrà per le generazioni future in lingua americana, a sua eterna memoria.

La produzione letteraria dello studioso era iniziata con La Città Eterna: Immagini romane nel mondo moderno  (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1987) che gli assicurò una nomination al Premio Pulitzer. Ma poiché nel dipartimento di italianistica insegnava Cinema e Cultura Italiana, Bondanella che aveva sempre nutrito una passione diamantina per Federico Fellini, aveva già pubblicato un libro di saggi sul Maestro riminese. E in virtù di tale affinità è nata, e si è consolidata nel tempo la nostra amicizia, sempre più stretta anche sul piano professionale (per l’edizione americana in DVD di Amarcord abbiamo riscritto e firmato insieme i sottotitoli) fino a  quando, essendo io  stato incaricato di dirigere l’Associazione “Fondazione Federico Fellini” a Rimini, l’ho chiamato a far parte del Comitato Scientifico, come unica presenza non italiana.

Nel frattempo Bondanella aveva scritto la poderosa monografia Il cinema di Federico Fellini, pubblicata del 1992 da Princeton University Press (traduzioni in italiano e in cinese) per la quale gli avevo ottenuto una “Prefazione” di Federico. L’apprezzamento del Maestro era stato per lui il coronamento di una dedizione cristallina, purissima e quasi mistica, culminata nella conoscenza personale con l’artista, il quale lo ricambiava con allegra simpatia.

Il libro su Fellini è un’opera di sistemazione teorica che mancava nella pur sterminata pubblicistica sull’autore, un’analisi accademica seria e molto articolata che terrà il passo del tempo. Come del resto A History of the Italian Cinema (New York: Continuum, 2009), periodicamente aggiornata, e imprescindibile manuale per ogni studente di università anglosassone intenzionato ad accostarsi al nostro cinema e alla sua evoluzione attraverso periodi  e tendenze.

Senza mai smettere di scrivere su Fellini, anche dopo la scomparsa dell’artista (I film di Federico Fellini Cambridge University Press, 2002) aveva individuato intanto nuovi territori di ricerca, e la pubblicazione negli USA di Il nome della rosa lo aveva indotto ad accostarsi ad Umberto Eco, sul quale anche scrisse una monografia e altri saggi di grande profondità: Umberto Eco and The Open Text: Semiotica, Fiction, popular culture (Cambridge University Press 1997) e Nuovi saggi su Umberto Eco (Cambridge University Press, 2009), intrattenendo in seguito con il celebre semiologo rapporti personali di vivace cordialità e stima. Come accadde del resto, e certamente con maggiore affetto, nel rapporto con Ettore Scola, il cineasta che più amava dopo Fellini. Nel 1995  invitò lui e me nella sua università dell’Indiana, con tappe accademiche alla Chicago University (Illinois) e alla Ann Arbor University (Michigan), famosa per il numero record di premi Nobel tra i suoi ranghi. Un tour concepito per omaggiare il regista di C’eravamo tanto amati, il quale con il suo garbo, il suo understatement, il suo arguto senso dell’umorismo, aveva affascinato il pubblico americano e passato il testimone all’ospite per consentirgli di continuare a diffondere ed esaltare l’eccellenza del cinema italiano. Un compito che Peter non si stancò mai di svolgere, esplorando soprattutto nell’ultimo decennio delle sua vita l’influenza esercitata dai nostri autori sui cineasti statunitensi; e, nel nuovo millennio, anche sulle serie di maggior successo dei grandi network televisivi, primo tra tutti i Soprano. Fu così che vide la luce nel 2002 il volume Gli italiani di Hollywood: Dagos, Palookas, Romeo, Wise Guys, e Sopranos (New York: Continuum International , 2004).

Peter, l’amico americano nel nostro cinema, “Distinguished Professor Emeritus of Italian, Comparative Literature, and Film Studies at Indiana University, United State” rappresentava un solido arco tra le due culture, da ammirare come il Ponte di Brooklyn, e la sua scomparsa lascia un terribile vuoto, non solo affettivo, ma di costante stimolo culturale.

Dopo decenni di studio conosceva l’italiano con una ricchezza di vocabolario da lasciare sbalorditi, lo parlava fluentemente conservando una coloritura di gradevole accento yankee, e non si faceva mancare citazioni anche altisonanti:  “O Roma o morte!” Mi permisi di correggerlo: il suo impeto garibaldino andava forse adattato alla vera indole degli italiani, meno marziale e più possibilista: “O Roma o Orte!”. Ridemmo di gusto, come due complici pinocchieschi riverberati dalla luce del Maestro, e da quel giorno, incontrandoci,  il solenne epifonema era diventato il nostro scanzonato saluto.


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