Due anni e mezzo senza Pino Daniele. Che paradossalmente oggi è più vivo che mai, almeno per chi ha amato le sue canzoni, la sua musica, la sua voce scostumata. In questi trenta mesi trascorsi dalla sua morte è successa anzi una cosa strana: alla grande arte del “nero a metà”, del “mascalzone latino” si sono avvicinati anche tante ragazze, tanti ragazzi, tante persone che non avevano fatto in tempo a conoscerlo o apprezzarlo in vita.
In loro soccorso, oltre ai tanti dischi, alle tante registrazioni audio e video, arriva un libro che offre al lettore tanti particolari inediti, tanti gustosi e al tempo stesso malinconici dietro le quinte. Si tratta di “Terra mia” (Minimum Fax, pagg. 121, euro 16), di Claudio Poggi e Daniele Sanzone: lo stesso titolo del leggendario primo album di Pino, pubblicato nel 1977.
Dice Daniele Sanzone, giornalista e musicista di Scampia, classe 1978: «Nel quarantesimo anniversario di “Terra mia”, Claudio ha deciso di raccontare la storia di un ragazzo di vent’anni innamorato del blues, che scrisse capolavori come “Napule è”, “Cammina cammina”, “Suonno d’ajere”…».
Claudio Poggi, classe 1954, un anno più grande di Pino, che era del 1955, è passato alla storia della musica italiana per essere stato il produttore di quel “Terra mia”, album che prendeva il titolo da una delle canzoni più belle e al tempo stesso malinconiche del nostro («Comm’è triste e comm’è amaro st’assettato e guardà tutt’e cose, tutt’e parole ca niente pònno fa’…»: com’è triste e com’è amaro starsene seduto a guardare, tutte le cose e tutte le parole che niente possono fare…).
> «Non si tratta – chiarisce ancora Sanzone, cantante degli ’A67, gruppo rock di Scampia – dell’ennesima biografia, ma di un vero e proprio viaggio negli anni Settanta, fatto con gli occhi di chi quel sogno, l’ha vissuto in prima persona. Conoscere la genesi, le storie, gli aneddoti, gli umori e le aspirazioni, che hanno portato alla pubblicazione di quel capolavoro fa venire ancora i brividi. Se solo riuscissimo a trasmettervi un centesimo delle emozioni che abbiamo provato nello scrivere queste pagine, allora avremmo raggiunto il nostro scopo…».
In effetti il libro esce decisamente dalla categoria delle biografie di cantanti e musicisti, scritte per soddisfare i fan e sfruttare anche in termini editoriali la luce riflessa dell’artista. Raccontando la storia dei primi passi musicali – e discografici – di Pino Daniele, gli autori aprono uno squarcio sulla Napoli musicale del decennio d’oro dei Settanta, terra fecondissima che grazie anche a “Pinotto” (così veniva chiamato da amici e colleghi) stava uscendo dagli stereotipi e dalla melassa del passato per aprirsi alla grande congèrie culturale che poi avremmo conosciuto e apprezzato, nella quale il rock e il blues flirtavano con i suoni provenienti dall’Africa e dall’Oriente, senza mai dimenticare le tradizioni e le radici melodiche di quella terra.
> «Nel 1977 sembrava difficile immaginare – scrive Gino Castaldo nella nota introduttiva al volume – che si potesse dire qualcosa di nuovo in una tradizione che, al momento del debutto di Pino Daniele, vantava già almeno un secolo di trionfale e autorevole storia». E invece…
> Riavvolgendo il nastro della memoria di Poggi, riemergono particolari sulla genesi di brani che ormai sono classici consegnati alla storia della canzone. “Terra mia”, certo, ma anche “Na tazzulella ’e cafè” e quella che per molti è la sua perla assoluta, “Napule è”. Leggi e sembra di vederli, quei due ragazzi poco più che ventenni, in una modesta, forse “sgarrupata” cucina con addosso voglia di caffè. Anche solo “un sorso freddo, giusto per fumarmi una sigaretta”, come chiede Pino all’amico. Poi, dopo l’ultimo sorso: «Comunque stanotte nun riuscivo a durmì e m’é asciut’pure chiest’: Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce d’e creature, che saglie chianu chianu, e tu sai ca nun si sule…». La voce dei bambini che sale piano piano, e tu sai che non sei solo. Capolavoro assoluto. Di quelli che non sfioriscono.