Lezione di scrittura n. 1: “Quando arrivano, con i loro bei vestiti di Parigi, fanno le gran dame, ti guardano dall’alto in basso… Il giorno dopo sono in shorts, come li chiamano… E quello dopo ancora le trovi sugli scogli con il culo all’aria… Mi scusi… Poi ti chiedono di partecipare a una battuta di pesca, e appena si ritrovano da sole con te in barca…” A parlare è “il magro e beffardo Joseph, che indossa una maglia a righe come i marinai di Tolone”; un pescatore preferibilmente di frodo, con la dinamite, che è il maggiore indiziato della morte in mare da colpo contundente di una bella e ricca signora, Eva, amante di un banchiere e in vacanza a La Levandau, sulla Costa Azzurra. Il detective è Émile, “magro, allampanato, con quello strano panama fuori moda, una sigaretta spenta in bocca, e come se non bastasse, gli occhiali alla Herold Lloyd che lo fanno sembrare miope. Lo osserviamo nell’atto di soppesare una boccia prima di un lancio di ben diciotto metri, una sfida aperta all’intera comunità del villaggio vacanziero. Ed ecco il tiro (lezione n.2): “La boccia è partita. Ha descritto una lunga traiettoria … Un tonfo sordo ben noto ai giocatori, il rumore di quando un lancio preciso centra in pieno la boccia avversaria, che rotola via lasciando il posto alla nuova arrivata, e questa, ancora vibrante, rimane immobile”.
Émile e il torreggiante Torrance, già ispettore del commissario Maigret al Quai des Orfévres, sono i titolari dell’Agenzia O, assoldati dall’antipatico miliardario Moss per essere scagionato da ogni addebito riguardo al decesso della sua amichetta, prima che la polizia lo coinvolga in uno scandalo. Ci sono altri sospetti per la morte violenta dell’avvenente avventuriera e naturalmente molti altarini verranno allo scoperto; che il brillante Émile tuttavia saprà maneggiare con abilità da giocoliere per l’appagamento del lettore. In “Le tre barche della caletta” incontriamo anche Berthe, la segretaria dell’Agenzia (Lezione n.3): “Sui calzoncini corti la signorina, che a suo dire non aveva nient’altro da mettersi, aveva indossato quello che lei definiva un copricostume: una sorta di vestaglietta che la faceva apparire ancora più svestita, poiché era chiusa solo da un bottone sul davanti, all’altezza della vita, e i lembi si scostavano a ogni passo facendo risaltare le cosce nude”.
C’è da aggiungere che a Berthe, assai graziosa, piace non poco Émile, troppo distratto dalle proprie investigazioni… (Lezione n. 4): “E’ una notte così splendida!… Le due camere sono divise solo da una sottile parete… E in quella parete c’è una porta con la chiave inserita nella serratura… A dire la verità la chiave era rimasta dal lato di lei, ma dopo cena, quando è salita a incipriarsi, si è affrettata a spostarla dall’altro lato… Nel caso in cui gli venisse l’idea…”
Nel secondo racconto, La fioraia di Deauville, l’episodio più glamour della gustosa raccolta, ci troviamo nella mondanissima località turistica della Normandia, immersi nell’alta società, tra alberghi di lusso e potenti portieri gallonati che sanno tutto di tutti e a volte troppo. Sui gradini del Casino viene trovata senza vita, uccisa da un colpo di pistola, la bella Loulou, una fioraia porte-bonheur ben conosciuta da tutti gli appassionati del tavolo verde. Il problema è che l’arma del delitto, “un gioiellino con iniziali incise sulla plaquette d’argento dell’impugnatura, appartiene un’allegra dama del gran mondo, Norma Davidson, giovane moglie di un ricchissimo finanziere americano già in volo verso la Francia sul suo aereo privato. Un caso dal quale Torrance non riesce a cavare le gambe. Da Parigi accorre, viaggiando di notte in vagone letto, il giovane Émile dai capelli rossi e dal fiuto infallibile. Alle prime luci del mattino i due colleghi si recano a bere un caffè per un iniziale scambio di opinioni; ed è esemplare – Lezione n.4 – questa annotazione a colpi di pennello: “A Émile era sempre piaciuta quell’atmosfera mattutina, quando dormono ancora quasi tutti e le poche persone già sveglie rifanno per così dire il trucco alla città. Gli spazzini municipali erano già all’opera. Nei bar, nei piccoli bistrot e nei negozi, il personale lustrava le vetrine con il bianco di Spagna. Poco distante c’era chi spianava la terra rossa dei campi da tennis e chi tendeva le reti”. Non c’è da aggiungere altro, tutto è vivido come in un dipinto impressionista, sembra di riconoscere le luci, i rumori, gli odori di quanto ci circonda. Non un termine, un aggettivo di troppo. Solo l’indispensabile, che diventa vita animata sotto i nostri occhi. Uguale e contraria all’incipit del racconto successivo “Il biglietto del métro” (Lezione n. 5): “Era una di quelle mattine che sembrano fatte apposta per tapparsi in ufficio e dedicarsi pigramente ad attività non troppo impegnative. Erano arrivati alla spicciolata, tutti con il naso rosso e le dita intirizzite, e tutti avevano commentato con la stessa convinzione: «Che nebbia!» Le stufe ronzavano cariche fino all’orlo. Benché fossero le dieci, le luci erano ancora accese a causa della nebbia. Come ogni giorno Barbet era uscito per andare all’ufficio postale. La signorina Berthe aveva preso il suo posto in anticamera, ma per la verità era occupata a vuotare la borsetta, che periodicamente sottoponeva a un vero e proprio repulisti”. Qui viene introdotto il quarto e ultimo impiegato della Agenzia O, Barbet, un borsaiolo pentito che si occupa soprattutto di raccogliere informazioni ed è un asso nel pedinamento. Nell’ufficio dell’Agenzia di Cité Bergère, si odono i passi pesanti di qualcuno che sta salendo le scale; una mano cerca a tentoni la maniglia della porta. L’uomo che è appena entrato “è alto, indossa un cappotto scuro. Avrà una cinquantina d’anni e ha l’aspetto di un solido borghese abituato a comandare”. L’individuo arranca fino alla stanza di Torrance e crolla di peso a terra, dopo aver accennato all’orologio appeso alla parete e aver mormorato con un filo di voce la parola ‘negro’. “Uno spasmo, una scossa per tutto il corpo, e sul pavimento non c’è che un cadavere”.
Chi è? Perché si è trascinato fino all’agenzia, e chi gli ha sparato quella pallottola nel petto? Parte l’inchiesta e di nuovo Émile è all’opera con la sua brillante sagacia, l’instancabile dinamismo, l’inflessibile logica deduttiva. La vittima si chiama Gérard Duhourcin vicedirettore di una grande azienda di Saint- Étienne, ed è arrivato dalla provincia con un treno della notte. Ha in tasca una grossa pistola a tamburo a cui manca una pallottola e la canna è ancora sporca di polvere da sparo.
Al centro del quarto racconto, Émile a Bruxelles, c’è una costosa pelliccia di visone che i detective dell’Agenzia O si affannano a inseguire da Parigi ad Anversa, in Belgio, e poi fino ad Amsterdam. Angèle, “bassina, rotondetta, col naso in su”, cameriera della signora Nathalie Frécourt, si è rivolta a Torrance per ritrovarla; infatti una sera, approfittando dell’assenza della padrona, l’ha presa dal guardaroba per andare a ballare al Colisée assieme al suo gigolò (Lezione n. 6): “Dieudonné ha insistito per andare nell’albergo lì accanto… Diceva che voleva vedere l’effetto del visone sulla …” Una volta in stanza lei si spoglia e il mascalzone quando non ha più nulla addosso, arraffa vestiti e pelliccia e fugge via. Nuda com’è Angèle non può certo corrergli dietro, e il prezioso visone si invola. Inizia una storia a inseguimento, con la pelliccia che passa dalle spalle di una donna all’altra e i due detective sguinzagliati sulle sue tracce, non solo dal marito della signora, un vanesio cinematografaro, ma dall’amante di lei, il produttore di B Movies Élie Wermster il quale, pur di rientrare in possesso del pregiato capo alza ogni volta, sproporzionatamente, la posta del compenso. La trama occhieggia al vaudeville francese, ma rivisitato nell’ottica della commedia brillante dell’epoca d’oro del cinema americano: donne inaffidabili dalle forme sinuose inguainate in sete fruscianti, amori illeciti, sfrenata mondanità, spregiudicatezza sessuale e un effervescente sense of humour imbevuto di sottile malizia. Sembrano davvero copioni cuciti ad arte per i film di Lubitch, ne possiedono quel celebre tocco delizioso e impudico, sullo sfondo del lusso ostentato, di trame internazionali, di grandi alberghi, di vite privilegiate, di tradimenti e soldi a fiumi. Invece sono racconti scritti nel ’41 da Georges Simenon, che ancora traspirano il profumo inconfondibile degli anni Trenta, immortalati da quei titoli indimenticabili in bianco e nero che lasciano addosso un’inebriante gratitudine alla vita: Mancia competente, Partita a quattro, Ninotchka, Scrivimi fermo posta, Vogliamo vivere!, Il cielo può attendere.
E’ come se il grande Sim si fosse preso una vacanza, pur senza abbandonare il genere poliziesco, per darci un saggio delle sue vertiginose capacità di narratore. Davvero un’alta scuola di ‘scrittura creativa’, senza tasse di iscrizione né accidiosi istitutori. Lo spassoso volumetto, edito da Adelphi nella collana economica, è una aerobica palestra di brio, dove il gusto dell’intreccio, il tratteggio dei personaggi, la sensualità delle vicende, ci rinfrancano come se appoggiassimo le labbra a una fresca e spumeggiante coppa di champagne. Impagabile sotto l’ombrellone.