BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

L’8 giugno rivedrò i miei aggressori in tribunale: grazie al SUGC e alla FNSI ho trasformato le mie paure in desiderio di giustizia

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Il giorno tanto atteso sta per arrivare, finalmente. Aspetto questo momento da quando ho firmato la denuncia contro i miei aggressori: marito, moglie e figlia maggiore che in ben due circostanze hanno cercato di fermare il mio lavoro servendosi della vile arma della violenza.

È accaduto nel Parco Merola di Ponticelli, tra novembre e dicembre del 2015. Un plesso di edifici di proprietà del comune che dista poco più di tre chilometri da casa mia. Un contesto geograficamente vicino, ma idealmente troppo distante dal mio mondo. In quel parco regnano “le regole dell’altro stato” e per la maggior parte delle 160 famiglie che abitano in quel luogo, la mia denuncia è un vile atto d’infamia e codardia di cui dovrei vergognarmi. Secondo il credo che regna nel Parco Merola, avrei dovuto applicare “la legge del taglione” e restituire la scortesie, ripagando i miei aggressori con la medesima moneta.

Una ragazza, Carmela Cirella detta Melania, pressoché mia coetanea, per giunta incinta all’epoca dei fatti, mi ha strattonato con violenza, afferrandomi per i capelli, fino a farmi cadere, per poi prendermi a calci, più e più volte.

Un mese dopo, suo padre, Giuseppe Cirella, ex affiliato al clan Sarno, noto pregiudicato, reduce da 10 anni trascorsi in carcere, mentre mi trovavo nel parco Merola per documentare l’avvio della quarta opera di street art lì realizzata, non appena mi vide, scese dall’auto e m’intimo prima di andare via, per poi iniziare a prendermi a calci e a pugni. Mentre ero in strada e stavo cercando di mettermi in salvo, mi affiancò, dopo aver caricato sua moglie in auto. E fu proprio lei a completare l’opera. Mariarosaria Amato, cognata dei “fraulella”, questo il soprannome dei boss del clan D’Amico, il sodalizio criminale che per decenni ha tenuto in ostaggio la vivibilità del Rione Conocal di Ponticelli, quello diventato celebre per “le stese” in pieno giorno da parte di giovanissimi gregari in sella a scooter di potente cilindrata.

La donna mi afferrò con violenza per i capelli e cercò di caricarmi in auto: “Sali in macchina, ti portiamo noi dai carabinieri!”, urlava. Mi dilegua, non appena la presa si allentò. Un “tira e molla” che mise a dura prova due vertebre cervicali e che per diversi giorni mi costrinse a rimanere a letto per contenere i capogiri, la nausea, il vomito, molto probabilmente, consequenziali anche al forte senso di repulsione che covavo nelle viscere. Non appena mi ripresi, sono stata costretta a lasciare Ponticelli: quell’aggressione culminata in un tentativo di sequestro di persona è maturata pochi giorni prima di Natale, a ridosso, quindi, di quei macabri rituali che impongono agli “uomini d’onore” di sparare tenendo puntata l’arma verso il cielo per festeggiare. Per una fortuita “fatalità del destino” poteva accadere che a qualcuno, vedendomi, potesse venire voglia di “festeggiare” e “casualmente” un proiettile vagante poteva finirmi in una mia tempia. Così, quel luogo idealmente assai distante dal mio mondo, è diventato fin troppo vicino a casa mia.

Un esilio forzato, un capodanno senza brindisi e fuochi d’artificio, lontano dalla mia famiglia e dagli amici di sempre, con l’anima avvolta in un cupo mantello di pensieri. La mezzanotte più nera e più buia della mia vita.

Non sapevo cosa avrei trovato ad attendermi, una volta tornata a casa. Poi, un barlume alla volta, è tornata la luce. Il primo sussulto a favore della “giornalista picchiata nel Parco Merola di Ponticelli” arrivò dai 99 Posse, i primi a prendere una posizione forte e di condanna verso quello che mi era accaduto, pubblicando sulla loro pagina facebook un post di solidarietà in cui raccontavano la mia sventura. Un post al quale fecero eco molti altri: giornalisti e gente comune, persone semplici e capaci ancora di indignarsi davanti alle angherie dell’umanità e condannarle, senza indugi.

Durante quei giorni trascorsi lontano da Napoli, anche Claudio Silvestri, il segretario del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania, mi scrisse un messaggio nel quale mi chiedeva di incontrarci, non appena avrei fatto ritorno a Napoli.

A pochi giorni di distanza da quell’incontro, ne fu organizzato immediatamente un altro con il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Beppe Giuletti. Sono stati loro ad accendere i riflettori più fragorosi sulla mia vicenda, riportando, di fatto, la luce nella mia vita, umana e professionale. Sono stati loro a tramutare quella brutta parentesi nell’inizio di un percorso condiviso e partecipato con gli altri giornalisti minacciati di tutta Italia. Sono stati loro a far sì che la mia vita e la mia storia s’intrecciassero con quella di Paolo Borrometi, Marilù Mastrogiovanni, Marilena Natale. Persone speciali, giornalisti intrepidi con i quali basta uno sguardo per capirsi. Fisicamente distanti, ma idealmente vicini al mio mondo, fino a diventarne parte integrante. Sono loro, gli uomini e le donne del SUGC e della FNSI, le persone che mi sono state accanto, più di chiunque altro, e che materialmente hanno voluto palesare la loro vicinanza alla mia persona, costituendosi parte civile nel processo contro i miei aggressori.

Hanno picchiato me, ma hanno colpito tutti: questo il monito che così s’intende lanciare, non solo ai miei aggressori, ma a tutti gli attentatori della libertà di stampa. Un segnale di forza che gli abitanti di Ponticelli hanno ben recepito: seppure nessuno dei testimoni delle mie aggressioni abbia trovato il coraggio di farsi avanti per raccontare quello che ha visto, proprio in questi giorni, una folta rappresentanza di cittadini sta esternando la volontà di manifestare pubblicamente la stima, il rispetto, le aspettative, la speranza che ripongono nel mio lavoro. E presto accadrà.

È grazie a tutte le persone che hanno saputo e voluto accendere una piccola o grande luce nella mia vita se, oggi, ho saputo tramutare la paura in coraggio e le incertezze in desiderio di giustizia. Chi denuncia viene sempre ripagato dallo Stato con quel genere di riscatto, materiale e morale, contro il quale, la violenza, nulla può: questa la lezione che, mi auguro, la giustizia italiana infligga ai cultori della “legge dell’altro stato.”


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