Sembrava dovesse essere l’inizio di una nuova era, l’alba di un giorno nuovo. Sembrava che il mondo dovesse andare sempre avanti. La fantasia al potere. Poi le cose sono andate diversamente. Sono passati cinquant’anni. “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ottavo album dei Beatles, da molti considerato il capolavoro assoluto all’interno di una discografia di capolavori (c’è chi preferisce “Revolver”, chi “White album”…), per altri addirittura il disco più importante della storia del pop, uscì in Gran Bretagna il primo giugno 1967. Negli Stati Uniti il giorno dopo. In Italia e in tante altre parti del mondo qualche giorno dopo ancora. Non erano tempi di uscite in contemporanea mondiale. Già, erano altri tempi. In tutti i sensi. Il mondo – anche grazie ai Beatles – stava lasciando il bianco e nero per i colori. In Inghilterra governava il laburista Wilson, la frattura con il vecchio mondo era rappresentata dai capelli lunghi dei ragazzi, dalle minigonne delle ragazze. E dai Fab Four, vere superstar mondiali, più dei Rolling Stones. Alla Casa Bianca c’era Johnson, alle prese con quella tragedia che si rivelerà la guerra nel Vietnam. E contro la quale scendevano in piazza i giovani di mezzo mondo. Dall’altra parte del pianeta c’erano Breznev e Mao. In Italia Saragat al Quirinale, Moro al governo, a Sanremo è l’anno del suicidio di Tenco.
Il Sessantotto sta per arrivare. Assieme alla contestazione, l’autunno caldo, poi la strategia della tensione, più avanti il terrorismo politico. In questo vecchio mondo la pubblicazione di quel disco, prodotto da George Martin, somiglia all’annuncio di una nuova era. Può sembrare strano che a un disco di musica pop venga data tanta importanza. Eppure… Lo spunto iniziale, in una sorta di concept album di ricordi adolescenziali dei quattro nella nativa Liverpool, germoglia alla fine dell’anno precedente. Fu McCartney a pensare a un album eseguito da un immaginario gruppo di musicisti, una banda di ottoni d’epoca vittoriana chiamata appunto “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (“La Banda del Club dei Cuori Solitari del Sergente Pepper”). E fu ancora lui, terminato di comporre il brano omonimo che avrebbe aperto l’album, a proporre agli altri di scrivere e interpretare i brani come se fossero eseguiti dall’orchestrina del Sergente Pepper. Montandoli poi nel disco in un’unica sequenza, che dopo la canzone del titolo avrebbe infilato perle assolute come “With a little help from my friends” (unica con la voce di Ringo Starr, poi lanciata a Woodstock da Joe Cocker), “Lucy in the sky with diamonds” (con le polemiche mai sopite sull’acronimo del titolo: Lsd…), “She’s leaving home”, “When I’m sixty-four” (mi amerai ancora quando avrò sessantaquattro anni?), fino alla definitiva e conclusiva “A day in the life”. L’opera comincia con un brusio di fondo, sembra di stare in una sala da concerto. Gli spettatori aspettano che gli orchestrali accordino gli strumenti. «Sono passati vent’anni esatti – dice una voce – da quando il Sergente Pepper ha insegnato alla banda a suonare…». La “Banda dei cuori solitari”, appunto. È fatta: lo schema consueto, la liturgia seguita fino a quel momento dai dischi di musica pop e rock viene capovolta. Grazie a quella finzione, a quell’artifizio, gli artisti sono liberi di creare, di eseguire, di proporre la propria musica – libera da lacci e lacciuoli – all’ascoltatore. Lennon (e non solo lui…) vi aggiunge le sue sperimentazioni con l’Lsd. E da quel momento nulla sarà più come prima.
La cosa bizzarra è che i primi brani che i Beatles scrissero per “Sgt. Pepper’s”, “Strawberry fields” e “Penny Lane”, poi non entrarono nell’album. «Brutto errore», secondo George Martin. Ma i due pezzi uscirono su 45 giri a febbraio, e l’uso era quello di un inserire singoli negli album. Paradossalmente poco importava: i quattro erano in una sorta di furore creativo che per la selezione finale ci fu solo l’imbarazzo della scelta. E poi quella copertina, la più bella della storia della musica pop, capolavoro pop che tanta parte ha avuto nel successo e nella trasformazione dell’album in un oggetto di culto. Realizzata da Jann Haworth e Peter Blake su suggerimento dello stesso “Macca”, propone il pantheon dei personaggi dinanzi ai quali i Beatles – ritratti al centro, uniformi di raso sgargianti, come una banda militare di epoca vittoriana, o una sorta di esercito della salvezza – avrebbero voluto esibirsi: da Einstein a Marlon Brando, da Marx a Edgar Allan Poe, da Lenny Bruce a Bob Dylan, da Oscar Wilde a Shirley Temple, da Fred Astaire a Mae West… Non passarono la “selezione” Gesù, Hitler, Gandhi, ma anche Nietzsche e Brigitte Bardot. In compenso c’era anche un italiano: tale Simon Rodia, emigrato quindicenne in America dalla provincia di Avellino, autore di visionarie opere architettoniche, fra cui le Watts Towers (note anche con il nome di Nuestro Pueblo), simbolo delle lotte per i diritti civili. Un disco? No. «Un momento decisivo nella storia della civiltà occidentale», scrisse Kenneth Tynan sul Times. Il critico letterario Guy Aston sviluppò l’assioma: disse che «i Beatles sono riusciti a fare della musica pop qualcosa che si ascolta seriamente, e che si potrebbe trattare come qualsiasi altro tipo di espressione artistica». E poi che «l’influenza di “Sgt. Pepper” sul pop è stata enorme», in quanto il disco avrebbe dato ispirazione a tutta una serie di album di altri musicisti. «I Beatles erano sempre stati l’espressione di un mondo di adolescenti: qui assumono volontariamente il ruolo che in un primo tempo era stato loro imposto dalla stampa, quello di capi spirituali. “Sgt. Pepper” è per molti aspetti un disco didattico per il pubblico; i Beatles hanno scoperto la “liberazione spirituale” e vogliono estenderla al mondo».
E quella del ’67 fu la “Summer of love”, non soltanto a San Francisco. Cinquant’anni dopo non possiamo affermare che l’impresa riuscì. Anzi. Ma di certo, quel disco ha influenzato (quasi) tutti gli artisti pop e rock che sono arrivati dopo, forse addirittura la cultura di questi cinque decenni. Tanto che oggi si può parlare di un prima e un dopo “Sgt. Pepper”. Nel ’69 la tre giorni di Woodstock e le violenze al Festival di Altamont (ma anche il festival sull’isola di Wight, tre edizioni fra il’68 e il ’70) calarono idealmente il sipario su un’epoca. “Nothing is real”, nulla è reale, cantava John Lennon. Nemmeno la banda dei cuori solitari, lonely hearts, appunto.