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Don Milani: molto più che un pedagogo

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Intervista ad Alberto Melloni (storico del cristianesimo, dirige la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna)

[a cura di Claudio Paravati]

 

Professor Melloni, secondo lei negli scritti di don Milani si può individuare una vera e propria pedagogia? Se sì, quali caratteristiche ha?

Credo che l’attribuzione a don Milani di una pedagogia sia stata una cosa non certo sbagliata o del tutto impropria, ma una delle cose che hanno molto limitato la comprensione del personaggio. Il personaggio è molto di più che un pedagogo: è un uomo nel quale c’è un’istanza evangelica e messianica talmente forte che sovrasta qualsiasi costruzione – diciamo così – di tipo pedagogico. E paradossalmente, tanto quanto il suo insegnamento è stato un pretesto della sua persecuzione, anche la canonizzazione del suo modo di fare il maestro è diventato un pretesto della sua persecuzione, per cui mi sembra un po’ pericoloso limitare la sua figura a questo. Certo, è un uomo che ha quest’istanza: la sete di assoluto, che precorre la sua vita e che si esprime anche nell’insegnamento. Ma il cuore di quell’insegnamento è un altro, è una concezione della parola e della consegna della parola.

Don Milani ha definito pubblicamente la scuola «severamente laica, cioè aconfessionale», ma allo stesso tempo ha scritto che soltanto un cattolico può fare veramente scuola. Ci aiuta a comprendere questa apparente contraddizione?

Don Milani ha un registro di scrittura nel quale c’è un ricorso alla forza argomentativa che sarebbe un po’ riduttivo definire semplicemente “gusto del paradosso”. Per lui la scuola ha una funzione assoluta, nel momento in cui è consegna della parola, perché nella parola c’è il contenuto stesso, la sostanza dell’essere uomo, dell’essere credente, dell’essere cittadino e dell’essere libero. E dunque, per questo, per lui la consegna della parola ha una specie di sacralità. Una sacralità quasi di tipo vocazionale. Quando lui scrive quelle frasi, scrive anche che gli insegnanti devono essere celibi, perché c’è una specie di sacerdozio della parola che per lui si coniuga con un celibato, quasi volesse essere una consacrazione. La laicità che lui pensa nella scuola è una laicità in polemica durissima con un’idea che era abbastanza comune ai suoi tempi e cioè che il fare una scuola religiosa garantisse la trasmissione religiosa. Mentre lui pensa esattamente il contrario, cioè che anche la sensibilità e la conoscenza stessa della dimensione di fede possa avvenire solo in una persona che abbia guadagnato tutta intera la sua statura e dignità di persona libera.

Se dovesse dire due parole chiave degli scritti di don Milani che riassumono un po’ le sue riflessioni, quali citerebbe?

La parola e il Vangelo.
È stato detto da molte parti che il movimento del Sessantotto ha “rapito” don Milani. La “Lettera a una professoressa” e gli altri scritti possono giustificare una simile appropriazione, secondo lei?

Di sicuro c’è stata una banalizzazione sessantottarda di don Milani che tendeva a far diventare questo prete con la talare, che faceva una scuola del tutto autoritaria, un profeta della decostruzione antiautoritaria della scuola. Cosa dalla quale naturalmente, a differenza di Pasolini, non si poteva difendere, perché era già morto. Il rischio senz’altro c’è stato, ma è stato corso non solo dalla cultura sessantottina, ma anche dalla cultura anti-sessantottina: ancora di recente abbiamo visto queste sciocchezze impagabili, che imputavano a don Milani una scuola troppo leggera, troppo lassista. Quando evidentemente la cosa che don Milani contesta è la scuola classista, in maniera molto netta e molto forte, facendo emergere l’esigenza che la scuola aveva di essere il luogo di una liberazione radicale ed integrale dell’uomo.

Le parole del papa, a metà aprile, sono state queste: «Don Milani ha praticato percorsi originali, talvolta forse troppo avanzati». Non è forse questa la conferma di una vecchia critica?

No, quello di papa Francesco è stato un atto che era atteso da cinquant’anni e non era un atto di riabilitazione di tipo sovietico, di quelli che non di rado tutte le autorità, anche quelle ecclesiastiche, riservano ai morti che si sono lasciati uccidere senza troppi sussulti. Era un atto di resipiscenza profonda, perché riconosceva a don Milani esattamente quello che lui voleva. Una cosa davanti alla quale Milani nella sua vita si è ribellato con tutta la sua veemenza e la sua passione è stata quella di essere un isolato profetino di sinistra. C’è questa frase meravigliosa che lui scrive quando non diventa parroco di Calenzano: «Son diventato un prete cattolico isolato e un prete cattolico isolato è inutile, è come farsi una sega. Non sta bene, non serve a niente e Dio non vuole». Lui ha sempre rifiutato quest’idea di essere un isolato e quello che papa Francesco ha fatto è stato di riconoscere, con tutta la forza e l’autorità del papato (che per la prima volta da quando c’è – che io sappia – ha scritto una recensione), il sacerdozio di quest’uomo. E riconosce quello che poteva esserci di avanzato e anche, onestamente, di incomprensibile per quello che erano le persone che gli stavano attorno. Lì c’era un sacerdozio che chiedeva un riconoscimento, una testimonianza cristiana domandava riconoscimento. E, nel farlo, mi sembra che abbia riconosciuto e preso atto che ciò di cui don Milani è stato vittima è una persecuzione, ordita dalla Chiesa contro un proprio figlio.

La visita del papa a Barbiana del 20 giugno, volta a rendere giustizia alla memoria di don Milani, secondo lei è sufficiente? O deve essere accompagnata da altro in futuro?

Penso che la visita del papa debba essere un gesto di pace. Negli Atti degli apostoli si dice che la Chiesa deve vivere in pace. E credo che la Chiesa abbia bisogno di vivere in pace e che non sia una questione di calcolare i risarcimenti o fare “ricorsi in appello” per domandare un risarcimento più alto. Ci sono altre cose che devono essere fatte. Nella liturgia della Chiesa latina, il mea culpa è una cosa importante ma anche abbastanza breve: se è sincero, non c’è bisogno che duri tutta la liturgia. Mi sembra che ci sia, in questa visita, tutto quello che ci si attendeva, cioè che don Milani venga riconosciuto per quello che è stato: un uomo nel quale la sete evangelica, il desiderio evangelico è valso più di qualsiasi rischio, di qualsiasi danno che potesse subire, perché non è mai stato un narcisista della persecuzione, ma ha sempre cercato una comunione con tutti, anche una comunione con la Chiesa, che gli è stata negata per una decisione precisa, esplicita – e per certi versi addirittura spietata – da parte dell’autorità. Nel momento in cui l’autorità suprema e l’autorità diocesana su questo fanno un passo di questo genere, chiudono – credo – quella che è stata una gigantesca ferita e danno il senso di una pacificazione che appunto non è la riabilitazione staliniana dei caduti, ma un gesto di chiesa. Non è l’unico, ma è uno dei casi nei quali la Chiesa riconosce di essere stata lei sorda alla profezia. E sorda alla voce dello Spirito. E questo è importante ricordarselo, non per il passato ma per il futuro.

Da confronti


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