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Carceri, in Italia le donne sono il 4%. “E hanno meno di tutto”

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Meno spazi, meno attività, meno lavoro. Daniela de Robert (Ufficio garante nazionale detenuti) riassume così la situazione delle detenute. “Sistema pensato al maschile, l’unica norma che le riguarda è quella sulla maternità, ma le donne non sono solo madri”. Molte criticità su sezioni nido e Icam

BOLOGNA – “Le donne sono il 4% della popolazione carceraria. Una minoranza che si traduce in uno svantaggio perché se nei 4 istituti femminili c’è più attenzione, nelle 56 sezioni femminili all’interno degli istituti penitenziari l’attenzione è residuale: le donne hanno meno di tutto, meno spazi, meno attività, meno lavoro”. Daniela de Robert dell’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale riassume così la situazione delle detenute nelle carceri italiane a margine del convegno “Carcere e questione femminile: normativa, criticità e proposte. Un progetto per Bologna” che si è tenuto oggi a Bologna a Palazzo Malvezzi. “C’è una questione di genere – continua de Robert – Sono stata in un carcere in cui le donne erano più degli uomini ma avevano stanze da 2 e gli uomini singole, non avevano la palestre e gli uomini sì, non avevano la stanza di socialità al piano che nella sezione maschile era presente. Inoltre, c’era lo stereotipo dell’attività trattamentale: le donne lavoravano in cucina e si occupavano di cucito, gli uomini facevano informatica e tipografia. Questa situazione va superata”. Insomma, il sistema penitenziario è pensato al maschile e mal si adatta alle (poche) donne presenti (2.394 su 56.863 al 31 maggio, dati ministero della Giustizia). “L’unico articolo dell’ordinamento penitenziario che riguarda le donne è quello sulle madri in carcere come se la maternità esaurisse la questione femminile. Non sto dicendo che non c’è un problema che riguarda le madri, l’ho vista la sofferenza dei figli lontani, ma le donne non sono solo madri”.

Attualmente sono 45 le madri detenute nelle carceri italiane con i loro 53 bambini, solo 21 sono in un Icam (gli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri con i loro figli), le altre sono sparse nelle sezioni comuni o nelle sezioni nido, dove ci sono (dati Ministero della giustizia al 31 maggio). A Rebibbia, ad esempio, sono 16 le madri con 18 bambini. A Bologna sono 4. Lo scorso settembre è stata rinnovata la Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti (sottoscritta da ministro della Giustizia, Garante per l’infanzia e l’adolescenza e associazione Bambinisenzasbarre) in cui l’attenzione viene spostata dalla madre detenuta al bambino innocente. “Nelle nostre visite negli istituti penitenziari verifichiamo sempre se questa attenzione è applicata nella quotidianità – spiega de Robert – Ci sono alcune eccellenze con spazi gioco, volontari e ludoteche ma ci sono realtà inaccettabili con stanze dei colloqui grigi e qualche macchinina rotta giusto per far vedere che ci sono dei giochi. Quello che serve è un cambiamento culturale che porti a un cambiamento nelle strutture perché per molti bambini il carcere è la prima istituzione che conoscono nella loro vita, prima ancora della scuola, ed è un’esperienza che può segnare la loro vita”. Anche le sezioni nido presentano delle criticità, “spesso non sono nemmeno sezioni nido, ma camere di pernottamento comuni”, così come i 4 Icam (gli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri con i loro figli). “Milano e Venezia sono centrali, è vero, ma quello di Torino è dentro al carcere, a Cagliari si è scelto un paesino sperduto e in Campania aprirà a breve a Lauro, perché devono essere in luoghi isolati?”, si chiede de Robert.

Oltre ai bambini presenti in carcere insieme alla madre, “numeri che stanno tornando a crescere”, ci sono quelli che entrano regolarmente in carcere per far visita al genitore detenuto, circa 100 mila. “Serve personale formato e luoghi accoglienti in cui tenere gli incontri – conclude de Robert – e poi bisogna aiutare i genitori in carcere a crescere come genitori, perché quando sono dentro il rapporto è fatto di una visita ogni tanto e dei soldi che inviano ai figli, ma quando escono deve esserci una relazione, un rapporto altrimenti i figli non li riconoscono come tali”. (lp)

Da redattoresociale


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