La sera della scomparsa Emanuela Orlandi s’incamminò verso Corso Vittorio Emanuele II. E non era sola. Dagli atti dell’inchiesta emerge una novità molto importante nel “giallo” della quindicenne cittadina vaticana, che aggiunge un tassello in più ai suoi ultimi movimenti e fa compiere a quest’intricato enigma un passo in avanti verso la sua soluzione.
Ma procediamo con ordine. Finora di Emanuela Orlandi se ne erano perse le tracce su corso Rinascimento, alla fermata dell’autobus di fronte al Senato. Con lei, altri cinque studenti della vicina scuola di musica “Da Victoria”. Quattro di loro, fra i quali Maria Grazia Casini, salirono sul 70. Emanuela no. Rimase a terra. Insieme a un’altra studentessa. Mai identificata nonostante fosse nota fin dalla sera di quel 22 giugno 1983, quando la Casini la menzionò alla famiglia Orlandi, che le aveva telefonato per chiedere notizie di Emanuela.
Bene. È proprio con lei, con questa “rosa blu” (come l’ho definita nel mio libro sul caso, Atto di dolore. L’espressione è stata adoperata anche nella serie tv Twin Peaks – Il ritorno) che Emanuela Orlandi, dal Senato, si diresse verso Corso Vittorio Emanuele II. La notizia salta fuori dal verbale reso dalla stessa Casini alla Squadra Mobile di Roma il 22 luglio 1983, dove raccontò che aveva riportato quanto detto agli Orlandi anche a suor Dolores. La direttrice della scuola di musica era poi risalita alla giovane. “Suor Dolores, a seguito della descrizione della ragazza che si trovava in compagnia di Emanuela alla fermata, è riuscita a identificarla e quindi interpellarla. Se ben ricordo questa ragazza, della quale mi sono dimenticata il nome, avrebbe riferito alla suora, che dopo che io e i miei amici siamo saliti sull’autobus, la stessa, in compagnia di Emanuela, si erano avviate a piedi fino a corso Vittorio, punto in cui si sarebbero divise, andando ognuna per proprio conto. […]. Quando suor Dolores ha interpellato questa ragazza, ero presente anch’io”.
Siamo a un mese esatto dalla scomparsa. La Casini parlò di questa ragazza anche ai Carabinieri (13 e 29 luglio 1983), precisando sempre che era una della “Da Victoria”. Non ne conosceva il nome, normale in un istituto di oltre settecento iscritti, ma che comunque doveva arrivare da suor Dolores, che l’aveva individuata in base alla descrizione fisica: moretta, bassina, ricciolina, capello corto. Senonché, nelle deposizioni della reverenda (5 e 10 luglio 1983, aprile 1985), nemmeno un cenno a quell’allieva e a quell’episodio. Perché? E perché non s’identificò questa “rosa blu”? Lei è una figura-chiave del mistero. Perché potrebbe aver visto chi quella sera portò via Emanuela, tacendolo poi a suor Dolores per paura, o perché potrebbe sapere altre informazioni. Come il motivo che spinse la Orlandi a dirigersi verso corso Vittorio e non dalla parte opposta, alla Cassazione, dove era attesa dagli amici. Sperava di rivedere il fasullo uomo dell’Avon che l’aveva fermata mentre andava alla “Da Victoria”? Oppure si stava spostando verso la fermata del 64 per rientrare a casa in orario?
Quest’eventualità contrasterebbe però con la testimonianza di un’altra studentessa, Laura Casagrande, che ai Carabinieri, il 4 agosto 1983, disse: “Durante il tratto di corso Rinascimento mi sono girata diverse volte per controllare se il gruppo (studenti della “Da Victoria” usciti da lezione, ndg) si era mosso. Durante tali controlli ho appurato che Emanuela era circa 20 metri più indietro di me […] Arrivata quasi alla fine di corso Rinascimento mi sono di nuovo girata vedendo solo gli amici, mentre Emanuela non vi era più. Alla fermata del 64 venivo raggiunta da tutto il gruppo ed ho chiesto a un mio amico, di cui però non ricordo chi, dove stava Emanuela, lui mi rispondeva di non saperne niente o meglio di non aver fatto caso a Emanuela. Successivamente sono salita sull’autobus 64…”.
Parole che stringono il cerchio sul luogo della scomparsa. Perché se Emanuela lasciò il Senato, ma non arrivò alla fermata del 64 su corso Vittorio, significa che sparì in quei trecento metri oppure che, in fondo a corso Rinascimento, girò a sinistra, lato Torre Argentina, o proseguì dritta, verso il dietro di S. Andrea della Valle.
Ipotesi, valutazioni, dilemmi. Che diverrebbero certezze assegnando un nome e un volto a quella “rosa blu”, ancora inspiegabilmente cantora dell’oblio. Chi poteva essere? Sul diario di Emanuela, almeno quattro nomi di ragazze della “Da Victoria”. Una di loro non fu mai sentita in forma ufficiale. Perché? Certo, della “rosa blu” Emanuela potrebbe anche non essersi appuntata il telefono. Che invece si era segnata per due giovani che ancora s’ignora a quale delle sue cerchie sociali appartenessero: gruppo del Vaticano, liceo scientifico o scuola di musica?
Universi umani da scandagliare a fondo. Perché un nome ha sempre qualcosa da raccontare. Specie se oggi appartiene a una donna, ieri ragazza, che conferma come la verità di un cold case sia un processo graduale e a tappe, che passa innanzitutto dalla definizione di tutta la scena dell’accaduto. E per Emanuela Orlandi non si può certo dire che sia stato fatto. Trentaquattro anni dopo, la partita è ancora aperta.