Nella “scala” dei bisogni troviamo migranti, detenuti, persone anziane, disabili, i “senza identità e speranza”. Ma quali risposte (e monitoraggio dei fenomeni) sono possibili senza un riferimento istituzionale? L’analisi di don Albanesi (Comunità di Capodarco): “E’ scomparso prima il Dipartimento, poi il ministero delle politiche sociali”
E’ sempre difficile stilare la lista di chi, più di altri, ha bisogno di attenzione e di aiuto. Non esistono parametri, né scale di riferimento. Vivendo il mondo dell’assistenza però è possibile farsi un’idea di che cosa sta avvenendo nella nostra storia di welfare. Discorso a parte è il problema della povertà, anche se spesso si intreccia quello dell’assistenza. Di quest’ultimo parliamo.
La categoria più a rischio sembra essere l’emigrazione. Problema vasto, complesso e di difficile soluzione. I popoli si sono sempre mossi in cerca di benessere. Ieri erano le terre coltivate, poi il lavoro, oggi la sopravvivenza. Ricordi personali si intrecciano con considerazioni economiche, politiche e sociali. Il nonno emigrò, all’inizio del secolo scorso, in Argentina, come molti italiani allora fecero; i compagni di scuola si sono recati, negli anni ’60, in Francia, Svizzera, Belgio per fare i muratori e i minatori, molte famiglie del sud Italia salirono al nord per lavorare nelle grande industrie delle auto e della chimica.
Ora sono i popoli d’Africa che si muovono, per guerre e per fame. Ma nessuno li ha chiamati, perché l’Europa non ha attualmente sviluppo industriale; le culture che si intrecciano sono molto diverse; gli spostamenti sono soggetti a vere e proprie tratte di esseri umani. Le tensioni sono alte e nessuno ha idea di come “gestire” il fenomeno.
I penultimi sono le persone private delle libertà personali e rinchiuse nelle carceri. In tempi di incertezza, chi ha sbagliato, secondo il comune sentire, deve pagare. Il tutto aggravato da frequenti episodi di corruzione che toccano tutti i gangli della convivenza: nel pubblico e nel privato, a opera di singoli e di organizzazioni criminali.
Una recente inchiesta tra i giovani ha concluso che un terzo di loro – tra i 17 e i 24 anni – è favorevole, per i reati più gravi, al ripristino della pena di morte. Soprusi, vagabondaggi, furti e violenze non hanno nessuna attenuante. Il concetto delle carceri come occasione di reiserimento è lontano dal comune sentire. Di fronte alle trasgressione della vita sociale, l’unica via d’uscita sembra essere la fermezza della galera. Sono lontani i tempi in cui si ragionava sulle cause e le risposte educative al disagio sociale.
I terzultimi della scala del bisogno sono i fragili: persone anziane, disabili, i senza identità e speranza. E’ un gruppo ampio. La scienza fortunatamente ha allungato la vita:, ma non sempre riesce a guarire, garantendo solo una vita minorata. Malattie croniche, fragilità diffuse investono milioni di persone. Novecentomila cittadini in Italia portano effetti invalidanti a seguito dell’ictus. Ogni anno 120 mila sono colpiti dalla stessa malattia. La patologie neurologiche (Parkinson, Alzheimer, distrofie, Sla …) sono in espansione, con la necessità di una assistenza personale e continua.
In Italia è scomparso prima il Dipartimento, poi il Ministero delle politiche sociali. Un riferimento istituzionale è invece necessario contro il rischio dell’abbandono e dell’affidamento del carico assistenziale alle sole famiglie, molte delle quali versano in condizioni difficili. Senza attenzione non è possibile nemmeno monitorare i problemi, programmare, reperire risorse, alleggerire i pesi. Il primo passo per affrontare il serio problema del futuro gracile è dunque ripristinare il riferimento istituzionale e adeguare il sistema assistenziale.