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Socialismo e “rana cinese”

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Il socialismo ha fatto la fine della “rana cinese”. Si è infilato nella pentola della globalizzazione quando l’acqua era ancora tiepida, forse pensando che rassomigliasse all’internazionalismo proletario, e invece è stato cucinato a fuoco lento e adesso si ritrova lessato senza quasi accorgersene. I partiti socialisti si stanno consumando in tutta Europa, anche se -dopo la caduta del Muro di Berlino e del comunismo di matrice sovietica- hanno avuto più di una possibilità per affermarsi. Il socialismo si è consumato lentamente, senza drammatici sobbalzi, diventando via via più insipido, dopo aver governato l’Europa, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, in Francia. In Italia la storia è stata diversa, con un Psi sempre minoritario rispetto al Pci, comunista di nome ma riformista di fatto, anche se appesantito dalla sua lunga (e ambigua) fedeltà a Mosca. Eppure il socialismo, democratico e riformista, ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della società contemporanea, ha affermato principi come la scuola e la sanità pubblica, la tutela dei lavoratori, le pensioni, il “welfare”. Poi è arrivata la globalizzazione, la crisi economica che ha privilegiato la circolazione del capitale finanziario ed ha spostato la produzioni delle merci in zone del mondo più povere, grate di poter crescere anche senza l’orpello delle tutele sindacali. La globalizzazione ha fatto arrugginire le grandi fabbriche fordiste e ha innescato migrazioni bibliche, per anni considerate una “emergenza”, che hanno mandato in crisi –almeno questa è la percezione- un sistema di welfare, conquistato dal movimento operaio novecentesco, per non parlare del terrorismo islamista. La paura, la ricerca di un’identità perduta, la perdita di tanti posti di lavoro sicuri, hanno fatto saltare antiche solidarietà e innescato una ostilità diffusa nei confronti apparati sindacali e di partito, considerati sempre più “casta”, lontani dal “popolo”, che una volta era chiamato “proletariato” o “classe operaia”, alla quale era stato promesso, se non il paradiso, almeno la partecipazione al potere.

La tecnologia digitale, internet, i social media hanno fatto credere che il territorio, le sezioni di partito, le parrocchie, siano diventate nozioni superflue, anche se le periferie sono rimaste lontane e dimenticate. Così i vari partiti socialisti si sono messi a bisticciare e a dividersi, come al solito, senza trovare parole nuove e soluzioni, tanto difficili quanto concrete, ai problemi creati dalla globalizzazione, che –con perfidia comunicativa- pretende poche immagini e pochissime parole che promettano tutto e subito.

Ma il socialismo, bollito dentro la pentola della globalizzazione, forse, può produrre un brodo ancora nutriente se verrà condito con altri ingredienti della dieta politica.  Ecco, allora, Emmanuel Macron, giovane, abile, coraggioso e fortunato, ma –speriamo- meno crudele del “Principe” di Macchiavelli. Macron è stato definito di “centro” perché si è smarcato dalla destra e dalla sinistra tradizionale, ma ha un solidissimo ancoraggio nell’umanesimo del filosofo Paul Ricoeur, che vuole conciliare con la sua esperienza di “banchiere”, anche se ha rifiutato quel mondo dorato. Ha vinto grazie al sistema elettorale francese (maggioritario a doppio turno), ma rappresenta solo una parte minoritaria dei francesi. Adesso dovrà provare a governare coniugando liberalismo e socialismo, ma noi in Italia sappiamo che il “socialismo liberale”, grazie ai fratelli Rosselli e a Gobetti, è solo apparentemente un ossimoro. L’Europa, che Macron ha difeso a viso aperto, nonostante tutto ha la matrice di “Giustizia e Libertà” nel “Manifesto di Ventotene”. Parlare, nel suo primo discorso, di Liberté, Fraternité, Égalité, forse può sembrare retorico, ma il suo richiamo all’illuminismo è stato tanto raro quanto prezioso. E poi ha letto i “nostri” libri, da Umberto Eco, a Pirandello e Svevo, che andrebbero consigliati anche a chi vuole rimettere l’Italia in cammino. Quindi vedremo, “bonne chance a tout le monde” e speriamo bene…


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