Neanche martedì 9 maggio è stato il giorno buono per il fotoreporter egiziano Mahmoud Abu Zaid, noto come Shawkan. In carcere ormai da 45 mesi, l’ennesimo appuntamento di fronte al giudice è stato rinviato al 20 maggio. Nell’agosto 2013 Shakwan si trovava, per conto dell’agenzia fotografica Demotix di Londra, in piazza Rabaa al-Adawiya, al Cairo, dove era in corso il violentissimo sgombero di un sit-in della Fratellanza musulmana, il primo atto repressivo sotto il generale al-Sisi che a inizio luglio aveva portato a termine un colpo di stato. I morti furono centinaia.
Per aver semplicemente svolto il lavoro di documentazione che gli era stato affidato, Shawkan rischia una condanna all’ergastolo per questo lungo elenco di pretestuose accuse: “adesione a un’organizzazione criminale”, “omicidio”, “tentato omicidio”, “partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione, per creare terrore e mettere a rischio vite umane”, “ostacolo ai servizi pubblici”, “tentativo di rovesciare il governo attraverso l’uso della forza e della violenza, l’esibizione della forza e la minaccia della violenza”, “resistenza a pubblico ufficiale”, “ostacolo all’applicazione della legge” e “disturbo alla quiete pubblica”.
Le condizioni di salute di Shawkan sono in costante peggioramento. La procura generale continua a respingere le richieste di scarcerazione provenienti dai familiari, da Amnesty International e dalle organizzazioni per la libertà di stampa.