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Rigore, fatica, impegno: il “metodo Morrione”

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Sei anni fa, il 20 maggio 2011, moriva Roberto Morrione, socio fondatore di Articolo 21 e grande giornalista, fonte d’insegnamento per tutti noi.

Al tempo del “dominio” del digitale e della moltiplicazione frenetica dei messaggi istantanei, dei tanti fattori culturali e mediatici che insieme convergono nel disperdere la nostra memoria, qualcuno ricorda ancora il nome dell’enigmatico quanto (all’epoca dei fatti) famigerato gruppo Ludwig? Quanti sanno oggi che fra il 1977 e il 1984, quasi non ci bastassero il terrorismo stragista e quello brigatista, sotto questa fantomatica sigla operarono prima in Italia e poi nel resto d’Europa degli spietati serial killer dai misteriosi tratti nazi-esoterici, capaci di uccidere ben ventotto persone? Che a seminare la morte fu quella che poi si rivelò una coppia di “sterminatori” (così si definivano), composta da due giovani dell’alta borghesia veronese, Marco Furlan e Wolfgang Abel, che si accanirono in un crescendo delittuoso contro omosessuali, prostitute, frati, sacerdoti, senza tetto, frequentatori di discoteche? Parto da questa vicenda per parlare di Roberto Morrione perché, più che delle suggestioni della retorica, preferisco servirmi della concretezza delle “storie”.

All’inizio degli anni ‘80 lavoravo come cronista alla Rai di Venezia. Con Roberto ci eravamo conosciuti frequentando delle combattutissime assemblee sindacali di giornalisti Rai. Come responsabile della cronaca del Tg1 fu proprio lui a commissionarmi – essendo al tempo evidente solo la matrice veneta dell’organizzazione criminale – una serie di servizi sui delitti firmati “Ludwig”, quando di Abel e Furlan non si sapeva nulla (furono catturati in modo casuale in occasione dell’ultimo attentato, in potenza il più apocalittico di tutti, fortunatamente fallito).

Quello che mi preme ricordare è soprattutto il modo in cui con Roberto preparammo il lavoro. Ci confrontavamo con qualcosa di intrinsecamente oscuro, che sfuggiva alle categorie interpretative di un terrorismo politicamente definito, che aveva il carattere del rito, ma che sapeva contemporaneamente di intolleranza razzista e di nazismo. Anche per questo, per la mancanza di schemi interpretativi che inquadrassero gli eventi, tutti i servizi che realizzai per il Tg1 furono preceduti e seguiti da lunghe conversazioni con lui: dovevamo capire, farci le domande giuste, cercare la corretta chiave di lettura. Era il suo metodo di lavoro: qualunque sia l’argomento di cui ti occupi, come giornalista devi essere sempre rigoroso, inserire il tema in un contesto, lavorarci con impegno senza ricorrere a scorciatoie, perché non esistono da un lato “argomenti alti” che richiedono sottili distinguo e dall’altro una “cronaca bassa” dove si procede con l’accetta del sensazionalismo fine a se stesso. E se hai delle responsabilità (era questo che mi comunicava, senza esplicitarlo, Roberto), allora puoi trasmettere a chi opera con te il più efficace dei messaggi testimoniando con l’esempio e la dedizione il tuo personale coinvolgimento nella storia che affronti.

Cosa resta di questo metodo di lavoro, di questa “visione del mondo” oggi? È questa la vera domanda che è inevitabile porsi. La prima tentazione sarebbe quella di farsi prendere dallo scoramento. Nell’ultimo decennio i media italiani (nel resto d’Europa non è andata cosi), hanno teso a trattare la cronaca come una sorta di spettacolo più o meno macabro, rilanciando ossessivamente ogni genere di notizia allarmistica. Non so con quale livello di consapevolezza, delitti e omicidi (peraltro drasticamente calati dagli anni ‘90) sono così diventati strumento di un marketing editoriale aggressivo teso a arginare le perdite di copie o di audience. Questa “strizzata d’occhio” agli umori di un paese già demoralizzato dalla crisi, ha avuto l’effetto di incrementare l’allarme sociale e generare nei cittadini una conseguente ovvia percezione di insicurezza poi ulteriormente alimentata da chi “al mercato della politica” ha affidato le proprie “fortune” alla strumentalizzazione delle paure degli italiani.

Che dire poi di quegli stessi media che hanno scelto di rimuovere l’approfondimento a vantaggio di una “eterna diretta” dove si passa istericamente da una “scena all’altra” e si parla superficialmente di tutto ma non si capisce mai nulla? Dove si è rimossa di fatto quella capacità di rilettura critica degli eventi che aveva dato senso e spessore alla dimensione civile del giornalismo di Roberto?
Ma lo scoramento, il pessimismo, oltre a non rappresentare mai un approdo o una soluzione, sono contraddetti da altri fattori. Sbaglieremmo se concepissimo il mondo della comunicazione come qualcosa di statico e non comprendessimo che la sua natura intrinseca è invece quella di essere sempre in perenne evoluzione.
D’altronde proprio alla base dell’impegno civico di una personalità forte come Roberto c’è sempre stata una visione “dialettica” della vicenda umana: l’idea che nella nostra vita anche i punti di caduta possono aprire nuove contraddizioni, favorire nuove “ripartenze”.

E i fatti di questo 2017 paiono nella loro cruda sostanza dargli incontrovertibilmente ragione.
L’anno scorso eventi “epocali” come il referendum sulla Brexit prima e l’elezione di Trump subito dopo hanno rappresentato per il giornalismo un punto di caduta pazzesco, uno scossone profondo che ha come rotto un incantesimo. Ha frantumato la credenza – più liberista che liberal – che l’informazione indipendente possa sopravvivere alla sua crisi con operazioni cosmetiche di marketing, col gossip, con le pigrizie intellettuali, gli atteggiamenti elitari se non addirittura “divistici”. La frattura è stata netta: a partire dal mondo anglosassone, dagli Stati Uniti dell’era Trump, si sta affermando la convinzione che quei “modelli comunicativi” che hanno dominato la scena mediatica recente e che abbiamo solo parzialmente descritto lo infilino in un vicolo cieco che ne può unicamente accelerare e consacrare la scomparsa.

In questa sede l’argomento può essere solo accennato, ma la sfida rappresentata da poteri di varia natura che non accettano più le “ingerenze” (cioè il controllo sociale) dei media, è così profonda, così “totale”, che appare evidente che l’unica informazione che può sopravvivere è soltanto quella capace di stabilire un’alleanza permanente coi cittadini, con l’opinione pubblica, con la loro necessità di essere informati. E come lo si fa ?

Sono convinta che la differenza tra il giornalismo buono e quello cattivo sia il lavoro: il giornalismo più autorevole e apprezzato è quello in cui si sente tutto l’impegno che c’è dietro, la fatica fatta per il lettore” ha scritto Katharine Viner, direttrice del Guardian, in un saggio che resta insuperato sul tema della post verità.
“Democracy dies in Darkness” è invece la considerazione che campeggia oggi ora sotto la testata del sito del Washington Post. A me sembra di risentire le parole di Roberto Morrione. Che ci voglia un lavoro duro per dare vita a un buon giornalismo e che senza la luce dell’informazione e della conoscenza, la democrazia muoia sono concetti assolutamente suoi. Ci si ritroverebbe in pieno.

da  www.premiorobertomorrione.it


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