Sono sempre più numerosi i profughi che, per via delle violenze subite in viaggio, riportano sintomi di depressione e disturbo da stress post-traumatico. Se n’è discusso a Torino, in un convegno che ha messo a confronto operatori della salute mentale che lavorano a interventi di supporto ai migranti
TORINO – Qualche settimana fa, la Corte penale internazionale ha annunciato di voler aprire di un’inchiesta riguardo ai crimini commessi a danno dei migranti nei centri di detenzione in Libia. Secondo il procuratore Fatu Bensouda, “omicidi, abusi e atti di tortura” – non di rado ai danni di donne e bambini – sarebbero ormai la norma in queste strutture; andando a sommarsi alle violenze che i profughi subiscono durante il viaggio nel deserto e agli innumerevoli casi di sequestro compiuti da bande di trafficanti, che per giorni sottopongono i loro ostaggi a torture indicibili, in modo da convincerne le famiglie a pagare velocemente il riscatto. Così – mentre si moltiplicano le testimonianze di quanti, pur di lasciarsi alle spalle il mattatoio libico, scelgono di percorrere a ritroso la via del deserto – il malessere psichico dei richiedenti asilo diventa un problema sempre più evidente e manifesto per il nostro sistema d’accoglienza: già nel 2014, un’indagine realizzata da Medici senza frontiere aveva rilevato, tra i richiedenti asilo sbarcati nel porto di Augusta, un’incidenza del 40 per cento di disturbi di natura psicologica e cognitiva. In altre parole, su 10 migranti esaminati, almeno 4 riportavano segni evidenti d’ansia, depressione e soprattutto del disturbo da stress post-traumatico, termine col quale in psicologia clinica ci si riferisce a un ampio insieme di sintomi che include pensieri e flashback intrusivi, “colpa del sopravvissuto” e stati dissociativi o di paralisi psichica.
“Questo quadro sintomatologico è probabilmente il più rappresentato all’interno della nostra utenza” spiega Laura Fachin, psicoterapeuta affiliata a Me.Dia.Re, un’associazione che a Torino offre servizi di sostegno psicologico rivolti ai richiedenti asilo. “Attualmente – continua – vediamo tra i 60 e gli 80 nuovi casi all’anno, perché con l’assottigliarsi delle risorse a nostra disposizione siamo costretti a operare una selezione delle situazioni più gravi e urgenti. Moltissimi riportano una sintomatologia riconducibile alo stress post-traumatico; ma molto spesso, accanto a questi disturbi, già di per sé molto gravi e invalidanti, si sviluppano i cosiddetti effetti di trauma secondario, paradossalmente ricollegabili a quanto accade durante il periodo d’accoglienza. Ci troviamo, cioè, di fronte a persone, spesso molto giovani, che possono rimanere per più di un anno e mezzo in attesa del responso della Commissione territoriale: alcuni riescono a impiegare questo tempo con una certa progettualità, ad esempio imparando la lingua o formandosi al lavoro. Ma per quanti abbiano già subito episodi gravemente traumatici, l’ansia, l’attesa e l’incertezza legata al percorso di riconoscimento dello status di rifugiato possono portare a forme di paralisi emotiva. Si finisce, in altre parole, per sentirsi totalmente in trappola, con tutte le strade chiuse: e il rischio è di lasciarsi inesorabilmente andare”.
Per discutere di questo, Me.Dia.Re. ha appena organizzato un convegno, che a Torino ha messo a confronto una decina di operatori della salute mentale, impegnati, nel capoluogo e nel resto del paese, in progetti di assistenza psicologica ai profughi. “Noi – ha spiegato Fulvio Bonelli, psichiatra del Centro migranti “Marco Cavallo”, specializzato in interventi di psicologia, psichiatria e psicoterapia ‘transculturale’ – lavoriamo con persone che spesso portano con sé una sofferenza indicibile, ineffabile, che è difficile persino da raccontare. A rigor di logica, il nostro compito dovrebbe essere quello di fare da collegamento tra loro e i servizi pubblici di salute mentale: ma quasi mai questo accade, per una serie di complicazioni che non sono unicamente di ordine burocratico”.
A complicare il quadro c’è, in primo luogo, il fatto che, nell’esame delle richieste d’asilo, il vissuto traumatico “è di fatto funzionale a dimostrare una persecuzione di fronte alla Commissione – spiega Roberto Bartolini, psicoterapeuta del centro “Franz Fanon”, che a Torino offre servizi di counselling, psicoterapia e supporto psicosociale per immigrati, rifugiati e vittime di tortura – e dunque diviene una risorsa per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato”. “In un dispositivo del genere – continua – i segni psichici del trauma, al pari delle ferite fisiche, divengono un elemento di convalida del racconto che il richiedente porta in Commissione. Ma ciò è all’origine di due grandi paradossi del nostro sistema d’accoglienza. Il primo è che la nostra azione, in questo modo, rischia di uscire dal campo terapeutico per entrare in quello del controllo sociale: perché in un contesto che, nei fatti, è in larga misura basato sul sospetto, il migrante diventa inevitabilmente qualcuno di cui dubitare. Il problema è che spesso le violenze vissute da queste persone sono realmente e letteralmente incredibili. Anni dopo la prigionia, Primo Levi affermava di continuare a dubitare di quanto aveva vissuto: allo stesso modo, i migranti spesso vivono degli stati dissociativi rispetto ai ciò che hanno subìto. Vale a dire, ad esempio, che i loro racconti a volte possono apparire incoerenti; o che qualcuno, di fronte alla commissione, finisce per auto-censurarsi, omettendo aneddoti che ne avrebbero invece aumentato le chance di ottenere asilo: e ciò non soltanto per un senso di vergogna, ma proprio per il fatto che alcune violenze vengono giudicate inverosimili perfino da chi le ha subite”.
Il secondo dei paradossi cui allude Bartolini riguarda invece il fatto “che il paziente rischia, in questo modo, di cristallizzarsi nell’identità della vittima”. “Si tratta di un meccanismo molto pericoloso – continua lo psicologo – perché è proprio nel momento in cui quell’identità viene riconosciuta che il percorso d’accoglienza, e dunque anche il supporto psicologico, viene meno. Il richiedente, cioè, ottiene lo status di rifugiato, ma da quel momento si trova a doversela cavare da solo”. Proprio per questo, gli operatori del centro “Franz Fanon” continuano a seguire i propri utenti fin quando ritengano di averne bisogno: “Ma questa – precisa Bartolini – è una di quelle scelte che espone la nostra esperienza al costante rischio di chiusura; perché il finanziamento per l’assistenza a ciascun migrante continua soltanto finché va avanti il percorso d’accoglienza”.
A ovviare, almeno in parte, ci sta provando il Comune di Torino, che a partire dal 2008, grazie alla collaborazione di una serie di nuclei familiari, ha messo in piedi il “Rifugio diffuso”, un progetto che fornisce un supplemento d’accoglienza compreso tra i 6 e i 12 mesi a quanti abbiano ottenuto asilo senza avere ancora un’indipendenza economica o una rete sociale consolidata: tra i servizi offerti c’è proprio il supporto psicologico, fornito sia ai migranti che alle famiglie ospitanti. “In questo modo – spiega Luca Giachero, uno degli psicoterapeuti che lavorano al programma – i migranti possono uscire dalle agenzie di assistenza istituzionali per entrare all’interno di reti sociali informali, e quindi della vita comunitaria. E questo è un passaggio intermedio molto importante, nella logica di un percorso di inclusione che si rivela spesso fondamentale per alleviare la sofferenza psichica dei migranti”. (ams)