Sono decenni che si paventa la privatizzazione della Rai o addirittura si arriva a tirar fuori l’idea che la “la tv di Stato non abbia più senso” (il prof Massimo Cacciari a “8 e mezzo” del 19 aprile con Richetti come spalla).
Certo non tutto quello che ospita la Rai ci sembra all’altezza della sua mission. Ma non è per questo che ci sentiamo di buttare “il bambino con l’acqua sporca”, solo perché non si sa come tirarlo fuori dall’acqua.
La Rai è sempre, innegabilmente, un’impresa culturale, un luogo in cui si producono idee -o almeno di dovrebbe-, contenuti, modi di intendere la realtà. Basta lasciarci lavorare. Basta riprendere in mano la propria funzione e pensare al pubblico e non a chi ha messo il tal dirigente o il tal conduttore o il tal dei tali.
Siamo stati nei 60 anni di storia alle nostre spalle inventori e realizzatori di tutti i format possibili: lo ha dimostrato oramai dieci anni fa Giovanni Minoli a Marco Bassetti, allora patron Endemol, in un’intervista indimenticabile de “La storia siamo noi” del 31 maggio 2007.
Tutti i programmi possibili e immaginabili erano stati già messi in onda nei 50 anni di RAI precedenti. Quindi denudava la “moda” (sic!) del format per quello che era: una truffa bella e buona. Chi come molti di noi ha lavorato prima degli anni ‘90 sa bene che un pugno di programmisti, un conduttore e un regista erano capaci di mettere in piedi programmi nuovi che girano ancora oggi ma “firmati” da autori, consulenti, collaboratori ai testi dal numero imprecisato. Sa bene che per fare talk o quiz (spesso assai poco televisivi e di valore divulgativo e formativo) non servono format o società esterne o decine di persone. Solo che chi ha memoria lunga, quelle professionalità interne, oggi sono diventate marginali e di tutela aziendale per appalti e collaboratori.
Purtroppo stiamo scemando in numero e marginalizzati nei ruoli per poter segnare i tempi. Ma ci siamo ancora e non smetteremo di ricordare a tutti che un’altra RAI è possibile.
Un’azienda come la nostra Rai ha un’identità da salvaguardare, lo gridiamo da decenni in tutte le manifestazioni. Identità, riconoscibilità che hanno prodotto e lasciato ad oggi un patrimonio senza tempo: dalle inchieste di Zavoli alle interviste di Biagi, dai reportage e film indimenticabili di Comencini e di Pasolini, lasciando i suoi mezzi nelle mani dei Pontecorvo, di Camilleri, di Moretti, di Lizzani, Montaldo, passando dalla satira geniale dei Guzzanti, allo sport, al cabaret, alla musica, al cinema, ai programmi per bambini. Non manca niente.
All’elogio funebre di un uomo di spettacolo come Gianni Boncompagni , nessuno ha ricordato che all’origine della sua carriera radiotelevisiva ci fosse la vincita di un concorso nel 1964 come programmatore di musica leggera radiofonico. E di concorsi in rai ne possiamo contare quanti per l’area editoriale?
Lavorare in Rai è stato ed è ancora per molti di noi, sinonimo di qualità del lavoro, di professionalità, per tutti. Dentro e fuori. E i programmi da sempre sono stati realizzati con il contributo di assistenti, programmisti, registi , pochi e con stipendio ben al di sotto dei tetti che spaventano oggi tanti.
Ma che fine ha fatto l’area editoriale della TV pubblica? Tanti autori Rai storici sono usciti dall‘ azienda per motivi d’età o per “estrema professionalità e libertà autorale” trasferita in imprese esterne che sono diventate fornitrici di prodotti editoriali, curiosamente (sic!) pagati di più se provenienti da fuori. Mentre scuole interne dell’azienda per scegliere e rafforzare talenti (dagli operatori ai montatori ai registi agli autori, dai costruttori agli impiegati ai documentatori e…) non si sono viste e non si vedranno concretamente.
Si preferisce fare spazio al mercato, che non è sempre all’altezza ma soprattutto che non è mercato. Non c’è libera scelta o libera partecipazione. Quindi si pastura il mercato esterno di pochi, senza attenzione al ricambio generazionale e alla qualità. I nomi letti per cariche dirigenziali o per i programmi, infatti, non solo non si sa spesso da dove e perché arrivino, ma nessuno è messo a rispondere dei risultati in termini né di gradimento né di qualità. La trasparenza è sconosciuta anche ai tempi dei Piani triennali di trasparenza imposti da legge, così come il merito (che nessuna legge riuscirà mai ad imporre).
Chi vuol lavorare in Rai e chi ci lavora sa che le idee non hanno canali di ricezione: se vuoi proporre programmi a chi li presenti? Se hai idee per migliorare programmi esistenti, con chi parli? Quali Commissioni trasparenti esistono per valutare e analizzare progetti e persone?
Siamo al far west.
La Rai purtroppo è una (non)azienda specchio del Paese e paga in tutto e per tutto la chiusura culturale e imprenditoriale del nostro Paese. Così a ogni cambio di gestione del suo Capo di Personale recita un identico mantra: non si sa chi lavora all’interno e chi fa cosa. Siamo alla preistoria o forse anche all’epilogo.
Lo abbiamo sentito dire da Gubitosi – e abbiamo fatto la Mappatura dei programmisti che avrebbe dovuto solo aprire la strada per una ricognizione di tutto il personale, morta così com’era nata – e ora ce lo ha recitato Galletti dicendo di essersi ritrovato in un’azienda feudale. Senza conoscenza del funzionamento interno del proprio personale.
Quel Galletti che a ottobre ha promesso di fonte alle proteste per i troppi collaboratori e appalti, Rai Academy per la formazione del personale interno, a suo parere bisognoso di formazione e ammodernamento. Invece di cacciare i dirigenti insipienti si continua a dire che è responsabilità delle lavoratrici e lavoratori Rai. Un vero inferno. E infatti Rai Academy non arriva e se arriva sarà accompagnata dal cono d’ombra della letale scarsa trasparenza RAI. La formazione non si è mai vista, i dirigenti sono sempre in aumento e quelli incapaci -anche’essi in aumento- promossi.
Così agli 11mila dipendenti sempre più impiegati e sempre meno creativi, si sono sommati altrettanti collaboratori. E non parliamo degli appalti. Così molti programmisti e assistenti sono stati messi al servizio di staff di collaboratori apicali o di appalti editoriali a cui fare da balia per metterli in grado di andare in onda (vedi Che tempo che fa che oggi può vendersi alla concorrenza dopo 16 anni di rodaggio e scuola in Rai con le maestranze e la parte di produzione a servizio).
Oggi poi senza un Piano Industriale, senza una capacità interna a formulare un convincente Piano editoriale, la mission di servizio pubblico si è di molto affievolita. Senz’ altro specchio del Paese e della confusione di progetto politico di cui siamo tutti testimoni. Ma non è questa la Rai che vogliamo.
Se noi Siamo la Rai, dobbiamo domandarci la Rai cos’è per noi.
Una nuova concessione addosso ad una “non azienda” arrugginita?
(Se siamo davvero italiani dovremmo anche domandarci cosa il paese l’Italia ha in progetto per noi.)