Il 19 aprile scorso il 24 enne Christian Careddu è stato condannato a 6 anni di carcere per aver promosso e diretto un’associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga nella Capitale. Per il giovane imputato il pm della procura di Roma, Barbara Zuin, aveva chiesto vent’anni di carcere con l’accusa di essere a capo di una piazza di spaccio di Tor Bella Monaca, quartiere est della Capitale. Alla lettura del dispositivo, la “riduzione di pena” ha generato festeggiamenti con applausi e abbracci. L’episodio è stato raccontato dai pochi giornalisti presenti in aula, negli stessi giorni in cui i riflettori erano tutti puntati sul processo “Mafia Capitale”, giunto alle battute finali nell’aula bunker di Rebibbia.
La guerra di Tor Bella. Non si tratta di un fatto isolato. Mentre in tribunale si va avanti stretti fra assoluzioni e condanne, Tor Bella Monaca vive da decenni una “guerra di quartiere” gestita dai signori della droga. Solo fra il 2016 e il 2017 sul territorio sono state arrestate 202 persone per reati associativi connessi allo spaccio di droga e sequestrati 50 kg di stupefacenti e 50 armi da fuoco. Sorta storicamente intorno ad una Torre, la borgata romana, attraversata dagli anni ’60 agli anni ’80 da sfortunati progetti di espansione urbanistica, si mescola alla vista con i cancelli e le inferiate, le vedette sui tetti e l’ingresso al quartiere scandito dalle scritte sui muri. Per i cittadini che qui vivono c’è il timore di “essere etichettati tutti come criminali”. “La situazione è allarmante ma non descriveteci come la gomorra romana” – chiedono alcuni residenti che accettano di parlare con i giornalisti, soltanto dietro la garanzia dell’anonimato. A Tor Bella Monaca i nomi di chi comanda però li conoscono in molti. Sono le famiglie dei Cordaro, degli Sparapano, dei Monterisi, dei Damiani-Fabietti ma anche i Casamonica e i tanti tantissimi “pischelli” che fanno le vedette, cresciuti sognando di fare la scalata al vertice del gruppo. Il loro peso criminale cambia da una via all’altra del quartiere ed è stabilito dai quantitativi di droga, dalle prove di forza, dall’arsenale: non solo pistole ma – se serve – anche mitra. Insieme a questi elementi si fanno strada altri simboli, già visti nei più famosi “narcoquartieri”, come il culto dell’identità criminale di un gruppo sulle mura della città e i tatuaggi dell’immagine del capo-famiglia. E’ il caso del clan Cordaro e del murales dedicato a Serafino Cordaro, ex capo assassinato in un regolamento di conti su mandato di Stefano Crescenzi, altro boss della zona. Nonostante i Cordaro siano stati al centro di una imponente operazione antidroga e i loro beni siano stati sottoposti a sequestro, “nessuno ha ancora cancellato quel murales realizzato sulle pareti di un edificio pubblico” – constatano i vertici della procura di Roma davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta su sicurezza e degrado delle città, il 21 febbraio scorso.
Il contagio. Ma cosa accade a Tor Bella Monaca? Se da un lato le sparatorie, le gambizzazioni, le minacce sono state, nel tempo, il dialogo armato dei gruppi di narcotrafficanti, dall’altro lato il metodo mafioso, l’intimidazione, gli affari e i contatti con mafia, camorra e ‘ndrangheta, sono i fattori che hanno generato una mutazione nel dna di questa mala romana. Come evidenziato nel Rapporto che monitora la presenza delle mafie nel Lazio (“Mafie nel Lazio”,luglio 2016) le aree di Tor Bella Monaca, Ostia, Romanina e San Basilio sono “soggette al controllo del territorio da parte delle mafie autoctone”. Non soltanto il governo delle “piazze di spaccio”, dunque, ma il più pericoloso controllo del territorio: si va dall’inquinamento di parte del tessuto economico, alle estorsioni, all’usura, sino alla ricerca del consenso dei cittadini. E proprio a Tor Bella Monaca le forze dell’ordine hanno registrato una intercettazione simbolo di questa evoluzione criminale, di questo “contagio” mafioso. Protagonisti gli uomini del gruppo di Alessio Lori, braccio destro di Fabrizio Capogna. In una conversazione con il fratello Fabrizio, Lori spiega: «Bruno ora è diventato intelligente lo sai che fa sotto i portoni […] dove vende… chiama quelli per pulire, gli fa pulire tutti i prati, sta rifacendo tutti i prati… i prati sotto casa della gente… “qua – dice – io ho le piazze, la gente mi deve volere bene a me altrimenti qua mi fanno bere…” Devi vedere: ha chiamato anche quelli che puliscono […] che rastrellano… ha fatto i fio… i fiori ha comprato, almeno la gente è contenta eh… […] ha ripulito sotto c’era un coso, gli ha fatto fare il tetto,gli ha fatto fare le cose.. […] “dà i soldi a tutti quanti, fa la spesa alla gente in difficoltà la (risata) lo vedo ogni tanto con due tre buste di Pemex una busta a quello, una busta a quell’altro, no vabbè la gente ti deve voler bene dove hai la piazza no? […] scappi dalle guardie ti nascondi a casa di qualche vecchia, no? Poi lascia perdere che c’è sempre l’infame che chiama le guardie, però…”». Parole simili a quelle pronunciate dai boss di Cosa nostra al comando dei quartieri di Palermo. Meno mediatiche di “mafia Capitale” queste “piccole mafie” rappresentano un rischio non secondario per la città. Generate per effetto contagio puntano al controllo del territorio e – esattamente come gli altri clan – ai business più redditizi. Forti dei notevoli introiti del narcotraffico e del potere di intimidazione esercitato in alcune aree della città, i clan si muovono nella Capitale con crescente disinvoltura. E non soltanto nelle aule dei tribunali.