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“L’intrusa” e i gay anti-Aids di “120 battiti al minuto”

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Diceva Bertold Brecht che la semplicità è la cosa più difficile da ottenere. Semplicità, rigore, assenza di retorica e messaggi chiari sono i più illustri “desaparecidos” del cinema, anche del cinema più impegnato, e non parlo solo di Cannes. Per queste rare virtù bisognerebbe mettere una scritta “Wanted” sotto le insegne del Festival.

Ecco perché un “piccolo” film italiano come “L’intrusa”di Leonardo Di Costanzo, un trionfo alla “Quinzaine”, si stacca dal coro. Ecco perché, in parallelo, il francese “120 battiti al minuto”, di Robin Campillo, detiene per ora il record di stellette dei critici, nelle pagelle di “Screen” e di “Le Film Francais”. Entrambi vantano un’ apparente “semplicità”che è una precisa conquista di linguaggio e di stile.

“L’intrusa”coglie il nodo chiave della battaglia contro la Camorra, e il più spinoso : se vuoi rompere la spirale, devi sottrarre alla malavita i suoi figli, rompere la catena di trasmissione, guadagnarli a un’altra cultura. Di Costanzo, che nasce documentarista e ottenne il David come esordiente per l’ottimo “L’intervallo”, ha scelto l’inedito punto d’osservazione di un centro ricreativo, un doposcuola per bambini “disagiati”.

L’educatrice Giovanna ospita anche, in una stanzetta, le persone in difficoltà. Una giovanissima sconosciuta con due bambini le chiede aiuto. Ma il giorno dopo la polizia arresterà, proprio lì, il marito camorrista della ragazza, un omicida. Faccia di pietra e sguardo sprezzante, Maria non chiede pietà, “pretende”, non conosce altro. Però rifiuta l’aiuto della “famiglia”camorrista. Così parte un illuminante braccio di ferro tra l’educatrice e le madri dei bambini del centro, che rifiutano la convivenza  con “il pericolo”. L’intrusa va cacciata, insieme ai suoi figli, anche se la piccola Rita, un grumo di violenza e ostilità, si è aperta al gruppo, ai giochi, all’amicizia.

Quando intorno le fanno il deserto, Giovanna sa che ha perso la sua battaglia. Gli “intrusi”, sconfitti, hanno già sgomberato. Ricacciati tra i loro “simili”. Due disfatte enfatizzate dalla festa finale al centro, dove i ragazzini hanno voluto fabbricare un uomo meccanico “c’a capa dritta”, a testa alta. L’unico simbolo di speranza del film. La storia è forte perché è dura, e perché come nella vita non ci sono “i buoni”e”i cattivi”. Ma prodigiosa è la realizzazione, sembra realtà catturata, i bambini ( “presi dalla strada”, come usa dire, come quasi l’intero cast ) interferiscono tra loro con una naturalezza mai vista, che in realtà, ci ha spiegato Di Costanzo, è improvvisazione “guidata” e provata.

Il regista è felice perché a Cannes non l’hanno visto come un film”locale”. “Il  pubblico non mi ha chiesto di Napoli, ma di un problema che affronta tutti i giorni anche chi qua fa intervento nelle banlieues, cercando di allontanare i ragazzi dal fondamentalismo islamico. E ogni giorno si chiede se è giusto sacrificare il singolo ‘a rischio’ per salvare il gruppo”.

Con la medesima forza antiretorica e senza orpelli barocchi “120 battiti al minuto” entrerà nel Palmarès, ci scommetto. Castillo racconta le azioni del gruppo di attivisti gay di Act Up, all’inizio degli anni ’90, quando l’Aids falcia vittime a pioggia e il Governo francese di fatto latita. Sono interventi ad alto tasso di spettacolarità, “bombe”di finto sangue contro i politici, le case farmaceutiche, profilattici nelle scuole, in un disperato sforzo di sensibilizzazione. I dibattiti interni sono “veri”, non verosimili.

Castillo c’era, è storia sua, ha perso un amore. Il sesso al tempo dell’Aids non era mai stato raccontato così, altro che “Philadelphia”. Saper scrivere, ragazzi. Castillo è il cosceneggiatore di tutti i film di Laurent Cantet, è l’ideatore di “Les Revenants”, avete presente la mitica serie ? E il protagonista, Nahuel Perez Biscayart, è finora il più strepitoso attore del Festival. Senza bisogno di scene madri. Dio benedica l’arte difficile della semplicità.


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