Il Prof. Sabino Cassese, qualche giorno fa, sul Foglio del 16 maggio ha dato ragione a Fabio Fazio: “se la Rai è un impresa, se è in concorrenza con le altre imprese televisive deve seguire le regole del mercato, non può stabilire limiti e tetti generali, rapportati a quelli dell’amministrazione statale”. La tesi ha una sua ratio, non altrettanto la motivazione.
A prescindere dal fatto che da Fazio non possono certo pretendersi atti di ta-fazismo, deve escludersi che la Rai sia un’impresa di mercato, tant’è che la Cassazione a Sezione unite non l’ha annoverata neppure tra le imprese pubbliche! Infatti, per giurisprudenza costante della Corte costituzionale, la Rai espleta una pubblica funzione, come tale non affidabile a un privato (come può invece accadere per i servizi pubblici in senso proprio) in quanto riservata a un soggetto pubblico. Nessun privato può infatti rendere la propria volontà decisionale rappresentativa della collettività nazionale, funzione che invece il servizio pubblico astrattamente assolve mediante l’evocazione dei meccanismi parlamentari (e quindi elettorali) che attraverso la Commissione di vigilanza giungono sino al Consiglio di amministrazione e al Direttore Generale.
La Rai pertanto, proprio in virtù del carattere istituzionale, deve corrispondere alle misure legislative riguardo alla gestione del denaro pubblico, misure cui, peraltro, si assoggetta anche il Presidente della Repubblica. Il tetto alle retribuzioni ha come parametro il compenso percepito dal Primo Presidente della Corte di Cassazione. La ratio fa quindi riferimento a un funzionario dello Stato (in senso lato) al culmine della carriera, che a suo tempo ha superato un concorso pubblico, ed ha rapporto di lavoro non solo stabile ma continuativo. Comprensibile, dunque, il tetto allo stipendio del Direttore generale in quanto primo dipendente dell’azienda pubblica; ma altrettanto comprensibile è prescindere da questo vincolo nel caso della prestazione eccezionale di un artista di successo; non a caso, il Ministero dell’Economia, azionista pressoché totalitario della Rai, su parere dell’Avvocatura pubblica, ha escluso che il tetto di legge si applichi agli artisti, pur invitando il CdA a stabilire un “tetto” per tutelare le finanze pubbliche dagli eccessi del mercato.
Entrando nel merito, sarebbe opportuno affrontare il problema dal punto di vista editoriale prima ancora che da quello economico. Agirebbe, infatti, come calmiere rispetto ai prezzi imposti dal mercato, il ripristino di un’effettiva autonomia nella creazione dei contenuti, l’attivazione di selezioni interne per gli autori, l’incremento della capacità ideativa e produttiva delle strutture interne in modo da affrancare l’azienda dallo strapotere degli agenti, dalle clausole di esclusiva, dai produttori che richiedono diritti residuali e dalle produzioni in appalto.
Altra prospettiva da considerare sul fronte di una riconquistata indipendenza è l’innovazione. Quando una fiction giunge alla tredicesima o quattordicesima serie (soap opera a parte, ve ne sono diverse che vanno in onda da oltre dieci anni!), si sviluppa una sorta di dipendenza autorale che comporta inevitabilmente, ripetitività e conseguente rinuncia all’innovazione: una caratteristica, quest’ultima, che Massimo Severo Giannini riteneva essere propria del servizio pubblico in quanto meno esposto dei privati al rischio che comportano le novità; in casi del genere – e non sono pochi – un “tetto” che non superi il compenso del direttore Generale è più che comprensibile. Altra cosa è la prestazione saltuaria dell’artista di talento, ontologicamente distante dai vertici della Magistratura.
L’altra idea apparsa recentemente, quella di ignorare il tetto per i programmi autofinanziati (dalla pubblicità), ha una sua forma d’intelligenza … ma con il nemico! Richiama immediatamente il cd bollino blu, un’ulteriore contabilità separata (che distingua i programmi interamente autofinanziati), programmi dedicati ai consumatori e non ai cittadini e prepara la strada ai ricorrenti tentativi di privatizzazione. E’ il principio per il quale l’anchorman famoso dichiara orgogliosamente che il suo programma non dipende dal canone, è interamente finanziato dalla pubblicità, si basa esclusivamente sul rapporto fiduciario tra “artista” e pubblico, non rendendosi conto di dare spazio in tal modo ad un’ottica privatistica (le service public c’est moi) e non di servizio pubblico. E’ infatti evidente che il successo di un programma dipende dal complessivo palinsesto, sicuramente finanziato dal canone, che la pubblicità raccolta non è “dedicata” né vincolata, ma entra a far parte delle risorse in sé e per sé considerate, che non vi è un servizio pubblico che possa far capo ad un particolare artista in grado di attrarre pubblicità autosufficiente, ma un servizio pubblico risultante dal mix di generi finanziato senza distinzioni da risorse rivenienti indifferentemente dal canone e dalla pubblicità.
In conclusione: poiché la Rai non è in nessun modo paragonabile a un’impresa privata, e, tuttavia, il Ministero – azionista pressoché totalitario – su parere dell’Avvocatura di Stato ha affermato che il tetto non si applica alle prestazioni artistiche, l’unica soluzione è che la Rai, appellandosi alla sua autonomia, si dia, al riguardo, un regolamento chiaro e distinto. La regola potrebbe, ad esempio, non avere nulla a che fare con un tetto economico, ma con la predeterminazione di quali prestazioni siano caratterizzate dai canoni del Primo Presidente (ai quali tutto sommato si attiene anche la figura apicale dello stesso Direttore Generale/amministratore delegato, pur essendo in carica solo tre anni, molto meno di certe più “consolidate” trasmissioni), in termini di stabilità, continuità, importanza del rapporto, e quali da tali canoni si distanzino, essendo invece da regolarsi con i criteri propri della autentica prestazione artistica in un regime di mercato, proprio per tale motivo non sottoponibile a tetti economici precostituiti, ma ai principi della infungibilità, dell’eccezionalità della prestazione e del progetto artistico, della creatività, della continua innovazione autorale e dell’esclusiva che non si traduca, di fatto, in rapporto di lavoro dipendente.