Scrivere di un attacco terroristico non è mai facile, perché dover parlare della scelta consapevole e voluta di fare del male e di uccidere comporta la ricerca di risposte, il tentativo di spiegare perché tutto ciò sia successo in quel luogo, in quel Paese, in quel momento storico.
Scrivere dell’attacco avvenuto la notte tra il 22 e il 23 maggio nella hall della Manchester Arena, in cui hanno perso la vita 22 persone e ne ha lasciate più di 50 ferite, sembra ripercorrere la macabra routine degli altri attentati avvenuti in Europa per mano dello Stato Islamico. Parigi, Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma: sono tutte lì, con ferite che non si rimargineranno mai, con i loro caduti da ricordare, con la ricerca del dove e come i servizi d sicurezza hanno sbagliato, con gli interrogativi sul perché i terroristi hanno voluto colpire proprio loro. Ci si ritrova ad indagare su chi ha premuto il grilletto, guidato il camion o si è fatto esplodere, si fa un loro identikit e si scopre che “tale tizio era da tempo noto alle forze dell’ordine e ai servizi segreti per le sue simpatie filo-ISIS”. Ed ecco che monta la polemica sulla sicurezza, piovono critiche sui governi, compromettendo una futura rielezione del primo ministro, o quantomeno del suo partito (il caso francese ne è un lampante esempio).
In questi due anni durante i quali noi europei abbiamo conosciuto l’ISIS in casa nostra (perché in Siria, Libia e Iraq esso è un ospite quotidiano, non dimentichiamocelo), abbiamo visto come gli obiettivi dei loro seguaci fossero luoghi di aggregazione sociale, come la Manchester Arena o il Bataclan, tempi della musica, oppure luoghi della tradizione, come i mercatini di Natale o la strada sul lungomare dove ogni anno si possono vedere i fuochi d’artificio d’estate, oppure luoghi della quotidianità come un supermercato o una strada che percorri per andare a lavoro, oppure luoghi dove si fa informazione sotto forma di satira, come la redazione di Charlie Hebdo. Sono i nostri luoghi ed è forse questo l’aspetto che più ci ferisce con la stessa potenza di un pugno nello stomaco, perché non riusciamo a spiegarci i motivi di farsi esplodere o iniziare a sparare in luoghi frequentati da persone comuni. Non siamo in guerra, allora perché colpirci? Perché uccidere bambini e giovani che erano andati a vedere un concerto l’altra sera? Possiamo darci tutte le spiegazioni politiche e socio-culturali possibili. Possiamo rispondere con frasi come “Manchester è la culla inglese del reclutamento jihadista” oppure “la Gran Bretagna paga per la guerra in Iraq del 2003 e per essere uno dei Paesi NATO coinvolti in Libia” oppure “le politiche di integrazione britanniche sono inefficienti e tendono all’isolamento di chi è immigrato”. Sono tutte risposte valide, perché lo Stato Islamico non sarebbe nato se i nostri governi fossero stati più cauti nel gestire conflitti come quello siriano o libico o se avessero evitato di mandare per vie nascoste ingenti quantità di armi a ribelli di questa o quella fazione, armi che poi sono finite in mano ai signori della morte. Nei territori occupati dall’ISIS e dai loro affiliati (un esempio: la Nigeria), ogni giorno innocenti muoiono e la disperazione mista a rabbia per essere stati abbandonati ha lasciato il posto alla normalizzazione della mattanza, all’accettazione rassegnata di vivere in maniera precaria. Anche loro si sono chiesti come noi il motivo per cui erano sotto costante attacco, ma il clima di anarchia istituzionale da loro presente non è un aiuto contro il Califfato. In Europa c’è la possibilità di aumentare il livello di sicurezza, cercare i complici di attentati come quello di Manchester, fare il possibile affinché ci sia giustizia ed evitare che la rabbia venga scagliata contro i musulmani veri, quelli con cui condividiamo la quotidianità e con cui confrontarsi è un piacere ed un arricchimento personale.
Quando scriviamo di attentati come quelli di Manchester, dovremmo ricordarci che per l’ISIS e tutte le altre organizzazioni terroristiche importa spargere paura e la convinzione che nei nostri luoghi quotidiani non possiamo più sentirci al sicuro. Ma sappiamo da città come Parigi che il loro modus operandi non potrà intaccare il nostro modus vivendi. Loro vogliono che smettiamo di andare ai concerti? E noi per dispetto riempiremo stadi e piazze. Loro vogliono che diventiamo islamofobi? E noi continueremo ad accogliere quanti chiedono a noi riparo, perché la loro ignoranza possiamo sconfiggerla con la nostra mente aperta La resistenza alla loro normalizzazione del terrore parte da noi.