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I destini del Paese in una settimana

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Credo di poter dire, a ragion veduta, che raramente abbiamo assistito ad una disamina più aspra di quella fornita stamattina dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. E la presenza in via Nazionale di figure come Draghi, la Boldrini e Mattarella è stata tutt’altro che casuale.
Il punto è che in una settimana si sono compiuti i destini del Paese e l’esito della smania renziana di tornare a votare prima che la realtà abbia il sopravvento su tre anni di bonus, mance e promesse mancate non lascia presagire nulla di positivo.
In poche parole: un certo mondo bancario e finanziario, una costola dell’universo imprenditoriale e tutti quegli ambienti che, all’inizio della scalata renziana, l’avevano non solo guardata di buon occhio ma, in alcuni casi, addirittura incitata e favorita, dopo il 4 dicembre hanno cambiato idea.
Si dirà che siamo di fronte alla consueta discesa dal carro dello sconfitto, o per meglio dire del probabile sconfitto alle prossime elezioni, e su questo non c’è dubbio; fatto sta che, visti i protagonisti della vicenda e considerato il loro profilo personale e professionale, non si può liquidare questa crescente perplessità nei confronti dell’uomo di Rignano come un semplice abbandono della nave che affonda.

C’è di più, molto di più. C’è un rifiuto psicologico, da parte di soggetti diversi ma accomunati da un minimo di senso dello Stato e delle istituzioni, nei confronti di quello che ormai è diventato il Partito trasversale dell’avventura, composto dai ben noti Grillo e Salvini, da un Berlusconi che ha scambiato la legge elettorale che più gli fa comodo con la data delle elezioni che più fa comodo a Renzi e, per l’appunto, da Renzi, l’ex speranza, l’ex pupillo, colui cui finanche Napolitano aveva affidato le sorti del Paese e che ora anche l’ex capo dello Stato reputa alla stregua di un irresponsabile.
Il punto è che, dal 4 dicembre in poi, Renzi ha perso quel briciolo di lucidità politica che dovrebbe consigliare serietà e consapevolezza, specie in una fase storica nella quale le sponde dell’Atlantico si stanno allontanando di giorno in giorno, la follia di Trump sta condannando l’America all’isolamento e le condizioni sistemiche del nostro Paese sono fra le peggiori di sempre, con un debito pubblico ancora estremamente elevato, una disoccupazione, giovanile e complessiva, che non dà tregua e il fallimento sostanziale di tutte le politiche renziane, al punto che ormai persino i consueti trombettieri del liberismo selvaggio cominciano a interrogarsi sulla necessità di trovare un’alternativa più credibile.
Il punto è che stiamo assistendo ad un passaggio d’epoca: abbiamo irriso Sanders e poi ci siamo resi conto che, se il Partito Democratico americano non avesse di fatto truccato le primarie, con lui candidato avrebbe vinto in maniera agevole; abbiamo irriso Corbyn e stiamo assistendo ad una rimonta che il povero Michael Foot, dicendo le stesse cose nel 1983, non poteva nemmeno lontanamente sognarsi; ci stiamo rendendo conto che il liberismo è una forma contemporanea di fascismo, assai più pervasiva dell’originale, e la presenza di papa Francesco in Vaticano ci sta mostrando un’alternativa possibile.

Del resto, non è un caso che la Chiesa, con la consueta lungimiranza, abbia anticipato i tempi, comprendendo alcuni anni prima della politica mondiale in quale direzione stesse andando il pianeta: l’elezione di Francesco è stata figlia di un ragionamento ben preciso, ossia della necessità di smarcarsi per tempo da un trentennio devastante che ci ha reso apparentemente più ricchi ma in realtà assai più poveri, essendo i suddetti concetti sempre e comunque relativi.
E così, in una settimana, abbiamo assistito all’incoronazione di Calenda da parte di una Confindustria evidentemente stufa degli annunci e dell’arroganza del segretario del PD, al discorso di Francesco all’ILVA di Genova che ha sconfessato su tutta la linea le politiche attuate, non solo in Italia, da una falsa sinistra giustamente abbandonata da milioni di elettori, all’ennesimo strappo renziano dovuto alla reintroduzione dei voucher sotto altro nome, alle parole tombali di Prodi, Monti e Letta nei confronti di un soggetto che sta conducendo il suo campo politico e l’Italia nel baratro, alla garbata presa di posizione di Padoan ad un convegno di respiro internazionale organizzato ieri dall’AREL, dedicato a come rilanciare le politiche sociali e il processo di crescita e sviluppo in Europa dopo la Brexit e le elezioni franco-tedesche di quest’anno, e infine, poche ore fa, allo strappo di Visco, il quale ha lasciato intendere di essere un fiero avversario del Partito dell’avventura e della sua mancanza di rispetto per le categorie più deboli del nostro Paese.
Perché a rimetterci, da queste elezioni folli e prive di senso, con scontri feroci sotto l’ombrellone e una propaganda ammorbante che guasterà persino il Ferragosto e quel po’ di sano di riposo che ciascuno di noi meriterebbe, saranno ovviamente soprattutto i ceti sociali più svantaggiati e colpiti dalla crisi, i quali si troveranno a dover fare i conti con l’aumento dell’IVA a partire dal prossimo anno e con tutte le misure economiche che scatteranno, inevitabilmente, a causa del mancato varo della Legge di Stabilità e del conseguente esercizio provvisorio.
Senza contare che un’Italia ridotta a paese di Pulcinella verrà inesorabilmente trattata dai partner internazionali alla stregua di una Burlonia senza dignità e senza futuro, il tutto mentre Francia e Germania rilanceranno alla grande un asse che negli ultimi anni si era piuttosto incrinato, dando vita a quel Merkelon che potrebbe far rivivere alle due potenze europee i fasti della stagione di Kohl e di Mitterrand.
Un’Italia fragile, dunque, insicura, sfiancata dal populismo e sconfitta dalla demagogia spinta di forze politiche prive del benché minimo interesse per il bene comune, della benché minima passione per la cosa pubblica, di una visione, di un’idea e di un progetto per il futuro che non sia la mera occupazione del potere, la spartizione di posti e poltrone e la promozione ai vertici del sistema dei propri fedelissimi.
Mi verrebbe voglia di domandare al senatore Monti se non si sia amaramente pentito di aver dato vita a Scelta Civica per ostacolare la corsa a Palazzo Chigi della coalizione Italia Bene Comune, favorendo le larghe intese con la destra e la conseguente palude che ne è derivata; mi verrebbe voglia di domandare a Napolitano se non si sia pentito di aver avallato la sostituzione di Letta con Renzi; avrei insomma mille domande da porre a molti dei protagonisti di questa drammatica stagione ma il tempo è prezioso e non merita di essere sprecato in quesiti retorici.


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