Stiamo attenti a non commettere il più frequente fra gli errori dei commentatori occidentali: valutare le elezioni di paesi assai diversi dalle nostre democrazie alla luce del nostro modo di sentire e di concepire lo stare insieme. L’Iran non è un paese occidentale, non ha nulla a che spartire con la nostra concezione della democrazia, segue un’altra religione, ha tradizioni, usi e costumi radicalmente diversi dai nostri e che in alcuni casi ci destano orrore ma, nonostante tutto ciò, non abbiamo alcun diritto di giudicare il loro modo di essere.
Il rispetto per l’autodeterminazione dei popoli, infatti, deve essere sempre e comunque una bussola del nostro modo di pensare, altrimenti il passo verso il fondamentalismo guerresco tipico dei Bush e di altri guerrafondai dei cui conflitti stiamo ancora pagando le conseguenze è brevissimo.
L’Iran ha rieletto presidente Hassan Rouhani, preferendolo in maniera netta all’ultraconservatore Ebrahim Raisi: questo è il dato di fatto e su di esso ci dobbiamo basare.
Non c’è dubbio che noi non avremmo mai votato per uno come Rouhani, ossia per un soggetto che non rispetta gli oppositori politici e nel cui paese vengono ancora messi a morte non solo gli omosessuali ma anche gli autori di reati che da noi verrebbero puniti con pene talvolta addirittura lievi; fatto sta che è evidente che il moderato Rouhani, fondamentalmente un centrista, abbia consentito all’Iran di stipulare un accordo internazionale sul nucleare che ha consentito alla sua gente di uscire dall’isolamento cui l’aveva condannata l’estremismo fanatico di Ahmadinejad, con annessa destabilizzazione dell’intera regione mediorientale.
L’ascesa di Rouhani, al contrario, ha costituito un elemento di stabilizzazione di quell’area, trasformando l’Iran in un punto di riferimento per gli stati occidentali e in un convinto oppositore nei confronti della barbarie dello Stato Islamico radicata in Siria e in Iraq, dunque guai ad interrompere il cammino faticosamente intrapreso quattro anni fa e guai a seguire Donald Trump lungo la strada che conduce ad una riapertura del conflitto, sia pur non in termini espliciti, con il rischio di vanificare il ruolo di cuscinetto e contenimento del Daesh che ha svolto sinora il paese sciita.
E guai, peggio ancora, ad assecondare i folli propositi di Netanyahu, il cui sogno inconfessabile sarebbe quello di dichiarare guerra all’Iran, senza rendersi conto, o forse comprendendo alla perfezione, che ciò equivarrebbe non solo alla devastazione dell’area mediorientale ma, peggio ancora, al pericolo mortale di scatenare una guerra mondiale non più differita, come quella denunciata da papa Francesco, ma spaventosamente concreta.
Prudenza politica e accortezza diplomatica richiedono, all’opposto, che si saluti con soddisfazione la vittoria di un interlocutore finalmente credibile, specie se si considera che è a capo di un paese non ancora pienamente affidabile ma comunque postosi, grazie a lui, lungo un sentiero di modernizzazione e apertura che fa ben sperare.
E l’entusiasmo, la passione civile e il significativo contributo offerto dalle nuove generazioni costituiscono, in tal senso, una garanzia che la piccola rivoluzione rouhanista, all’insegna di una società leggermente migliore rispetto a quella realizzata dai predecessori, non si interrompa. E anche se i passi avanti da compiere restano ancora tanti, già l’aver dimostrato di non voler tornare indietro e l’aver manifestato la sincera intenzione di voler provare a trovare una propria via al progresso sono fattori da monitorare con attenzione ed incoraggiare senza pregiudizi né alcuna imposizione dall’esterno.