Siamo nell’era dell’informazione ma siamo sempre meno capaci di usare i mezzi di comunicazione. Sia quando guardiamo un tg che quando chattiamo sui social. Questa incapacità è un fenomeno antico come l’essere umano, ma viviamo in un periodo in cui il linguaggio è in continua evoluzione. Mi piacerebbe rimanesse questa consapevolezza dal Festival dei Diritti Umani, dedicato quest’anno alla libertà d’espressione. Iniziative culturali come queste dovrebbero servire a concentrare in poco tempo punti di vista originali, spunti per informarsi e ragionare. Si dovrebbe uscire dagli incontri o dopo la visione di un film con la piacevole sensazione della sorpresa o dell’apprendimento. Mi auguro che chi sta leggendo questo bilancio per Articolo21 abbia provato queste sensazioni. Avendolo pensato e coordinato posso solo aggiungere qualche elemento personale su questa seconda edizione del Festival dei Diritti Umani.
Innanzitutto ho ricevuto la conferma che c’è un abisso tra l’intelligenza di molti giornalisti e quello che poi si legge sui loro giornali. Persone che vogliono ragionare, che non si accontentano delle verità preconfezionate, che provano a combattere i pregiudizi che scrivono per giornali che incitano all’odio, per televisioni che strumentalizzano le paure, per radio che abbondano di luoghi comuni. Com’è possibile? Probabilmente perché la precarietà imperante spinge un redattore a non contestare un titolo balordo o una foto splatter. Sia i giornalisti che rischiano il carcere sotto i regimi autoritari (Turchia), sia quelli che rischiano la vita nelle nazioni democratiche (Italia) hanno testimoniato che stanno pagando semplicemente perché non sono stati zitti di fronte a Erdogan o davanti al boss: hanno fatto il loro mestiere.
Al Festival dei Diritti Umani abbiamo fatto un azzardo: abbiamo inserito all’interno della discussione sulla libertà d’espressione il tema del cyberbullismo. I docenti e gli studenti ci avevano incoraggiato: “il bullo abusa della sua libertà d’espressione e alla vittima viene tolto il diritto di essere libero di esprimersi come davvero è”, ci avevano detto. Tra un film e una lezione interattiva è emerso anche in questo caso che il bullismo è ugualmente una incapacità di comunicare. O meglio che la cura di questo grande problema (un adolescente su due ne è stato protagonista o spettatore) passa dalla ri/costruzione di forme di comunicazione non ostili. Dove nessuno può dirsi estraneo: né i ragazzi, né i genitori, né la scuola, né i grandi player digitali. Partendo però da se stessi: Giovanni Ziccardi, docente alla Statale di Milano e anche Angelo Cardani, Presidente dell’Authority delle Comunicazioni hanno invitato la platea di studenti ad agire, a bannare il bullo, a scollegarsi dalla chat in cui si viene insultati, a scegliersi (meglio) il gruppo di amici.
A ben vedere lo stesso discorso che è stato portato avanti dagli studenti delle scuole di giornalismo che Radio Popolare ha invitato a scrivere un codice etico europeo contro l’hate speech. Nell’incontro tenuto al Festival dei Diritti Umani sono emerse più domande che risposte: Facebook e Google, grandi veicoli di discorsi d’odio e fake news, devono essere considerati a tutti gli effetti organi d’informazione? perché i media tradizionali non riescono a liberarsi dal giogo delle classi politiche che soffiano sul fuoco dell’intolleranza? Ma in attesa di avere le risposte i futuri giornalisti ci hanno ricordato che molto dipende da ciascuno di noi giornalisti, dalla nostra professionalità nel trovare riscontri e smentite ad una notizia; dalla nostra capacità di indignarci di fronte ad una fake news o ad un titolo razzista.
Potrei continuare a lungo, a raccontare di come un festival dedicato alla libertà d’espressione abbia provato a scuotere questo torpore diffuso, a ricordare che quella libertà è direttamente collegata alla possibilità di vivere in una democrazia vera. Ma tutti quei ragionamenti sono terribilmente racchiusi nella mostra fotografica di Andy Rocchelli, il fotoreporter ucciso in Ucraina nel 2014. In quella mostra, fortemente voluta da Fnsi e da Articolo21, c’è uno scatto che dice cos’è la libertà d’espressione: è la foto che ritrae un uomo, quasi inginocchiato, con una borsa della spesa in mano, che guarda atterrito chi lo fotografa. Lui è Andrej Mironov, traduttore, attivista per i diritti umani, imprescindibile guida per noi giornalisti occidentali. Insieme a Andy hanno lavorato gomito a gomito per raccontare la guerra in Ucraina, evitando le trappole della propaganda. In quella foto Andrej guardava Andy con il terrore – “si specchiava”, ha detto la mamma di Andrea Rocchelli – di chi intuiva la fine vicina, i colpi d’artiglieria sempre più precisi. Andy e Andrej hanno pagato per tutti noi, per difendere la libertà d’espressione.