La prima sentenza del regime del bavaglio turco è arrivata con tutta la sua dirompente gravità. Un tribunale di Istanbul ha condannato ieri a 22 anni e sei mesi due giornalisti della rivista Nokta, Cevheri Güven e Murat Çapan. Rispettivamente direttore e caporedattore della testata, Güven e Çapan furono arrestati con l’accusa di “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica” e “istigazione alla rivolta armata” a causa di due copertine; la prima mostrava il presidente turco Recep Tayyip Erdogan scattare un selfie con dietro bare di militari coperte da bandiere, mentre la seconda commentava la vittoria dello stesso Erdogan alle elezioni del 1 novembre 2015 con il titolo “2 novembre 2015: inizia la guerra civile in Turchia”.
La rivista su cui scrivevano i due imputati era specializzata in inchieste investigative ed era stata chiusa il 27 luglio del 2016, subito dopo il fallito golpe di dodici giorni prima, come altre 130 testate.
Quello che si è concluso ieri è solo il primo di una serie di procedimenti scaturiti dall’inchiesta di un procuratore di Istanbul che aveva il chiaro mandato di zittire per sempre la stampa indipendente. In queste ultime ore è iniziato anche un altro dibattimento, contro 200 tra militari e dipendenti pubblici ritenuti tra gli ideatori del tentativo di colpo di stato.
Nei prossimi giorni è poi atteso l’esito finale del processo per il quale lo scorso aprile era stata avanzata la richiesta di ergastolo per 30 persone, inclusi giornalisti e dirigenti del quotidiano Zaman.
Il giornale, affiliato al movimento di Fetullah Gülen, è stato prima requisito dal governo turco nel marzo 2016, che lo aveva posto sotto amministrazione controllata, e poi chiuso con un decreto presidenziale in seguito al fallito golpe.
La repressione di ogni voce libera in Turchia è andata in crescendo. Siamo a oltre 160 giornalisti in carcere.
La settimana scorsa gli ultimi mandati di arresto emessi in ordine di tempo dalla Procura di Istanbul nei confronti dell’editore del quotidiano dell’opposizione “Sözcü”, Burak Akbay, del giornalista Gökmen Ulu nonché dei dirigenti Melda Olgun e Yonca Kaleli, tutti sospettati di legami con il movimento di Gülen.
Lunedì scorso a finire in cella era stato il responsabile del sito web di Cumhuriyet, Oğuz Güven, arrestato per ave pubblicato un articolo sulla morte del procuratore Mustafa Alper nella provincia occidentale della Turchia..
La Turchia, che è al 155esimo posto su 180 paesi del World Press Freedom Index del 2017, diffuso da Reporters Without Borders lo scorso 26 aprile, si conferma come la più grande ‘prigione’ per i giornalisti.
Il governo turco, utilizzando poteri speciali riconosciuti dallo stato di emergenza proclamato dal presidente Erdogan, ha effettuato una massiccia rappresaglia contro i mezzi di informazione non allineati e una serie infinite di purghe e di arresti di funzionari pubblici, militari e esponenti di vari settori della società civile.
Solo nell’ultima settimana sono stati quasi 1300, mille per legami con Gulen.
Il bollettino del ministero degli Interni di Ankara è impietoso.
In manette sono finiti anche 222 militanti del Pkk curdo, 72 presunti affiliati all’Isis e 24 a gruppi illegali di estrema sinistra.
E non è di certo finita.
Ne terranno conto i vertici UE che giovedì a Bruxelles incontreranno Erdogan in un faccia a faccia in cui si parlerà del piano di controllo dei profughi provenienti dalla Siria, costato 4 miliardi all’Europa e divenuto l’arma di ricatto che il governo turco sta utilizzando per riaprire il processo di adesione della Turchia all’Unione?
Dubitarne è lecito.