La Maddalena è sdraiata a terra su un fianco, le gambe morbidamente sovrapposte; è nuda tranne il velo bianco che le copre pudicamente l’inguine, parte dei lombi e la sommità delle cosce. Intorno a lei ci sono l’abito di seta, sontuoso, e le babbucce di raso negligentemente abbandonati sul pavimento; sparsi in disordine i gioielli, le collane, gli ori usciti da uno scrigno aperto, capovolto; i simboli del lusso, e della lussuria, i compensi alle sue prestazioni, evidentemente molto ambite. Lei stessa indossa un bracciale prezioso al polso e tra le dita incrociate delle due mani trattiene un monile prezioso. E’ una ragazza giovane, molto bella e sensuale, con i capelli biondi ben acconciati sul capo. L’atteggiamento è languido, invitante, una posa d’alcova quasi ‘residua’ del suo mestiere, ora non più giustificata: Maria Maddalena sta parlando con la sorella Marta, accosciata proprio di fronte a lei, sull’impiantito, ai piedi del giaciglio adorno che rappresenta il luogo del peccato. Anche lei tiene i capelli raccolti ma è completamente vestita, sebbene scalza. Sta convincendo la ragazza ad abbandonare la vita di lussuria, a convertirsi, con l’aiuto dei poteri celesti. Infatti in secondo piano c’è un angelo munito di sferza che scaccia in malo modo il diavolo tentatore. L’angelo è un adolescente nudo, a parte un panneggio azzurro sui fianchi, e le sue ali sono alzate e aperte nell’impeto del movimento. Satana, riconoscibile dalla coda animalesca, è un uomo adulto sospeso a mezz’aria, che volge in ritirata senza opporre resistenza e assiste in atteggiamento pensoso, con la mano al mento, alla scena di Marta e Maddalena che dialogano tra loro; è come se prendesse atto, contrariato, che qualcosa è cambiato irrimediabilmente a proprio sfavore.
Nella composizione spaziale si distinguono sulla destra, più buie, altre due figure femminili, in piedi, nell’atto di lasciare in fretta la stanza: una, in veste bruna, piange e si terge le lacrime, l’altra in veste rosa e turbante in testa, getta un ultimo sguardo timoroso al prodigio, prima di uscire su un ballatoio, una terrazza elegante con balaustra a colonnine, sul cui parapetto è appoggiata una pianta in vaso. Oltre la soglia risplende il sole, che disegna a terra le ombre; e si scorge uno squarcio di cielo celeste con nuvole bianche leggere, erratiche. Sulla sinistra c’è un’altra fonte di luce generata da una finestra a vetri piombati, sistemata in alto nella profonda strombatura del muro. Il chiarore, a forte contrasto, pone in risalto sia la schiena muscolosa del demonio nudo, sia il volto, il petto e le gambe dell’angelo castigatore. La scena, nella sua interezza, è dominata al centro e in primo piano, dal corpo nudo e levigato di Maria Maddalena che sembra emanare luce propria: se profana o divina, lo stabilirà chi guarda, essendoci in corso un acceso confronto di idee e interpretazioni. Poiché Cagnacci è un pittore secentista, della Controriforma, si tende ad attribuirgli propositi edificanti, che non escludono, anzi comprendono tutte le inevitabili e indispensabili tentazioni della carne rappresentate con realismo e doverosa convinzione: bisogna conoscere il male in ogni piega per poterlo veramente contrastare e sconfiggere. E i pittori, sapientemente ne approfittano, non senza malizia. Guido Cagnacci, sulla lezione stilistica appresa a Roma dal maestro Guercino, ci invita a porci l’interrogativo di fronte a questa tela sontuosa – due metri e ventinove per due e sessantacinque – esposta al Castello di Santarcangelo di Romagna per celebrare il centenario della nascita di un altro pittore santarcangiolese, il contemporaneo Giulio Turci: classe 1917, amato da Fellini e da Tonino Guerra. Perché? Che rapporto c’è tra i due artisti? Semplicemente la luce, dicono i tre curatori, lo psicanalista Ugo Amati e i critici d’arte Laura Muti e Daniele de Sarno Prignano, che infatti titolano l’evento LALUCE, raccogliendo il concetto in un’unica parola e suggerendo il senso stesso dell’operazione. Vale a dire, una riflessione su quel misterioso elemento che rende possibile l’arte pittorica, nella quale la sola materia è il colore. Contrasti, chiaroscuri, sfondi, architetture, forme, volumetrie, prospettive, figure, movimenti, espressioni del viso, degli occhi, del corpo, derivano da minuziose gradazioni cromatiche, da superfici che a volte riflettono e altre volte creano la luce, producendo un effetto di illusionismo: dalla rappresentazione più elementare alla più sofisticata. Indipendentemente dal soggetto, dal genere, dallo stile, dalla tecnica e dal supporto. Per il risultato conta la maestria, questo sì; e sia Cagnacci che Turci, nel loro ambito, sono due maestri. Sui quali soffermarsi è salutare.
L’uno e l’altro, essendo venuti al mondo nello stesso luogo, hanno visto la medesima luce avvolgere le persone, i paesaggi, gli oggetti quotidiani. Entrambi si sono ingegnati a studiare la qualità di quella luce e a riprodurla per esprimere il proprio mondo, non solo esteriore; scegliendo la forma di racconto più vicina alla propria sensibilità, più inerente alla propria epoca, più rispondente al proprio fuoco creativo. Non sono paragonabili tra loro, ciascuno dei due essendo un universo a sé, ma sono accostabili, e non soltanto per esercizio di studio o per diletto, o per reperire affinità e discordanze; ma per provare a specchiarci nelle loro opere, essendo quasi sempre l’opera d’arte lo specchio di chi guarda. Un atteggiamento di cui i curatori ci forniscono per primi un esempio palpitante nei contributi in catalogo, calamitati essi stessi dall’irrefutabile riflesso.
Nell’impostazione della mostra sono i quadri di Turci, scelti con grazia e sapienza, a condurci verso il ‘palcoscenico’ su cui troneggia la Maddalena penitente di Cagnacci, copia conforme della tela conservata a Pasadena, e a giudizio degli esperti anche più compiuta, eseguita dall’artista a metà del ‘600 su committenza dei marchesi Guidi di Bagno: occasione rara se non unica di ammirazione e di riscoperta.
Di Turci contempliamo le ‘marine’, i canneti sulla spiaggia, i pattini tirati a secco, le barche a riposo, rovesciate, la casa sull’arenile, gli ombrelloni simili a padiglioni sacri, invariabilmente immersi in una luce ferma, immutabile, sospesa, dentro un’atmosfera senza tempo, una calura millenaria, un’aria dallo spessore quasi molecolare; e quel mare liscio o schiumoso, in muta attesa. Vediamo l’uomo sommerso dai palloni a spicchi colorati, vediamo l’armadio ingombro di ogni sua visione, vediamo le creature femminili colte nell’attimo stesso della fascinazione, forse di un sogno privo di parole. E’ vero, in quel bianco gessoso dei suoi quadri c’è un ricordo di Morandi, lo sguardo che viene da dentro; nelle figure ci pare di avvertire un’eco lontana di Campigli, negli scorci en plein air l’umida salsedine di Carlo Carrà. Ma il sentimento profondo, ‘religioso’, riconduce a Piero della Francesca, a quel famoso ‘fermo fotogramma’ dove tutto è prodigio, stupore metafisico. Ugo Amati cita a ragione Blaise Pascal: “Dio dà abbastanza luce per credere, ma lascia abbastanza ombre per non credere”.
Nella grande tela di Guido Cagnacci si coglie il momento emozionante in cui la creatura è nuda davanti alla conversione, spoglia d’un tratto di ogni orpello: abiti, collane, catene d’oro, giacciono a terra senza più valore. Rilucono assai meno del corpo della ragazza intrisa di un fatato fulgore, al pari di molte altre celebri eroine del pittore, in cui gli storici dell’arte ravvisano la trasfigurazione stessa dello Spirito, di quel “Dio che atterra e suscita/ che affanna e che consola”.
Percorrendo lo snodarsi di stradine e di piagge tra gli antichi edifici, che conducono alla Rocca Malatestiana di Santarcangelo dominante sul nido di case, il visitatore avrà come un viatico una anticipazione sensoriale dell’esperienza che lo attende. Quel gioco di quinte da cui il sole irrompe a fiotti, a colate, crea vibrazioni, tagli di luce e trasparenze che lasciano ammaliati, e sono gli stessi che Giulio Turci assorbiva dall’aria e rifondeva nei suoi dipinti. Gli stessi, anche, che Cagnacci, lontano dal suo paese, aveva rievocato nel cuore, ambientando a memoria La conversione della Maddalena, come notano alcuni studiosi, proprio in una delle più riconoscibili sale del castello.