Sono oltre 150 i giornalisti detenuti nelle carceri turche per ordine del presidente-sultano Erdogan. Uno di questi, l’italiano Gabriele Del Grande, è stato liberato lo scorso 24 aprile ed ha potuto riabbracciare i familiari dopo 14 lunghi giorni di detenzione diventati anche isolamento e sciopero della fame durante gli ultimi giorni di prigionia. La nuova “democrazia” voluta da Erdogan, dopo il colpo di Stato fallito in luglio e il referendum popolare vinto con il 51% e tante ombre di brogli, continua a preoccupare l’Europa e i delicati rapporti diplomatici nello scacchiere mediorientale. Migliaia le persone che sono finite nelle carceri turche dopo il tentato colpo di stato per far capitolare il nuovo sultano Erdogan. Tra loro anche tanti giornalisti, documentaristi, blogger, fotografi e videomaker. La loro colpa? Aver dato voce all’opposizione del presidente.
Archiviata felicemente la liberazione di Gabriele Del Grande – fermato a Rehali, mentre si trovava al ristorante per raccogliere una delle storie di vita che saranno raccontate nel prossimo libro “Un partigiano mi disse” sulla nascita dell’Isis e finanziato grazie al crowdfunding – tra i giornalisti che rimangono nelle carceri c’è anche Deniz Yucel, arrestato lo scorso 14 febbraio, reporter turco-tedesco del Die Welt. Fermato perché accusato di “propaganda terroristica”, “istigazione all’odio” e “diffusione di dati”. Una posizione delicata anche per il possesso del doppio passaporto. A poco sono serviti gli appelli di Angela Merkel, Martin Schulz e le campagne stampa organizzate da alcuni grandi quotidiani europei appartenenti al gruppo Leading European Newspaper Alliance (Lena).
I reportage di Yucel sono stati considerati eccessivamente critici nei confronti del governo turco. Yucel durante la convalida del suo arresto, dopo 14 giorni di fermo stabiliti dalle autorità turche, si è difeso raccontando di avere lavorato ad un pezzo su RedHack, collettivo di hacker turchi che diffuse alcune mail di Berat Albayrak, ministro dell’Energia e genero del presidente Recep Tayyip Erdogan. Proprio il sultano in persona disse che Yucel avrebbe meritato l’ergastolo perché “fiancheggiatore del terrorismo”. Adesso rischia 10 anni ed è recluso in un carcere senza poter avere contatti con altri detenuti: le uniche persone che può vedere sono i suoi legali. Da circa 75 giorni il reporter turco-tedesco non conosce il proprio destino. Altri sei reporter turchi sono in cella per lo stesso caso: secondo il quotidiano tedesco Die Welt alcune mail dell’affaire Wikileaks riguardavano proprio la Turchia e in particolare il controllo sui gruppi editoriali e l’influenza sull’opinione pubblica mediante una rete di account fake su Twitter.
Nonostante la prigionia Deniz Yucel è riuscito a sposare Dilek Mayaturk, collega che lo affianca da molti anni. Un matrimonio di cui non esiste nemmeno una foto: il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha emesso un divieto ad hoc affinché durante la cerimonia non venissero scattate foto né girati video.
Il clima di preoccuazione all’interno delle redazioni turche ovviamente non migliora. Non è un caso che in questi ultimi anni l’indice di libertà di stampa in Turchia sia sceso in maniera preoccupante: oggi è scivolata al 155° posto su 180, secondo la classifica di Reporters Sans Frontiers. E c’è il timore, purtroppo realistico, che le cose possano anche andar peggio di così.
Il 2 maggio a Roma la Federazione della stampa, Articolo 21, No Bavaglio, Amnesty, Arci, Ordine dei giornalisti del Lazio e tante altre associazioni, hanno deciso di promuovere, di fronte alla Camera dei deputati, un sit in per leggere tutti i nomi delle giornaliste e dei giornalisti detenuti nelle carceri turche: “Un modo per raccogliere gli appelli che arrivano dalla Turchia – affermano gli organizzatori – ma anche per chiedere alle autorità politiche ed istituzionali, internazionali e nazionali, di non fingere di non vedere e di non sapere cosa stia accadendo, e non da oggi, in quel paese”.
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