Per gli assidui del Caffè Aragno, l’ “Amaro Gambarotta” era Alberto Moravia claudicante.
Sandro De Feo era: “Pancia competente” oppure “Cafone il censore”; Renato Guttuso: “Guttuse-Lautrec”; Cesare Zavattini “Il brutto addormentato nel basco”. Siamo nella Roma del 1944, nel bel mezzo della guerra. L’Italia è spaccata in due; le truppe germaniche in ritirata verso il nord lasciano alle spalle morte e distruzione; a Firenze hanno fatto saltare tutti i ponti ad eccezione di Ponte Vecchio. “Barbariche devastazioni tedesche a Firenze”, titola in prima pagina il 9 agosto il Corriere di Roma, quotidiano del P.W.B. (Psichological Walfare Branch). L’avanzata alleata, su tutti i fronti europei, appare incontrastabile. Il 15 agosto le truppe anglo-americane sbarcano in Francia;14.000 piloti dalle basi dell’Italia meridionale volano in appoggio all’Operazione Dragoon. La Capitale dall’inizio di giugno è sotto il comando del colonnello Charles Poletti, commissario della zona metropolitana, il quale masticando un discreto italiano tiene ogni settimana radiodiscorsi di incoraggiamento per i cittadini stremati dalle privazioni. Manca la corrente elettrica, si vive a lume di candela e il cibo scarseggia ovunque. I pochi locali pubblici ancora aperti sono illuminati con l’acetilene: “Ci si accorge come è triste la pioggia con il Caffè Greco senza luce elettrica e la Rinascente vuota di merce”. Così scrive, mescolando appunti personali a titoli di giornale incollati sulle pagine, Steno, ovvero Stefano Vanzina, il quale dal 1° agosto al 31 ottobre tiene un diario fittissimo, vergato con grafia limpida e lineare; un reperto prezioso scovato in fondo a una cassa dalla moglie Teresa Nati e ripubblicato per volontà dei figli Carlo e Enrico Vanzina per i tipi del Centro Sperimentale di Cinematografia/ Rubbettino a vent’anni dalla prima uscita (pagg. 191, 12 euro). Uno squarcio di palpitante verità su quei tempi calamitosi. Alla fine della guerra Steno diventerà sceneggiatore e regista famoso, dirigendo prima a quattro mani con Monicelli e poi da solo, alcuni tra i più bei film di Totò, e titoli leggendari come Un giorno in pretura o Un americano a Roma, inaugurando la commedia italiana e inventando di sana pianta il genere ‘poliziottesco’ ancora in voga. Figlio di Alberto, giornalista del Corriere della Sera morto troppo precocemente, Steno nei giorni del diario aveva 27 anni e viveva in ristrettezze alloggiando insieme alla madre Giulia Boggio in pensioni di fortuna. Rimediava la sopravvivenza come instancabile collaboratore e poi redattore di giornali umoristici (Il Marc’Aurelio, il Marfoglio), scrivendo sceneggiature e copioni teatrali. Fu lui ad accogliere Fellini al Marc’Aurelio; e anche a regalare al diciannovenne riminese – me lo raccontò Federico – “La metamorfosi” di Franz Kafka, l’ingresso in un universo insospettabile che tanto influì nell’immaginario e nella poetica del futuro regista.
Il vorticare dei giorni, dei luoghi, dei personaggi, si aggrega intorno alla preparazione, al Teatro Valle, di una rivista dal titolo ammiccante, “Il suo cavallo”, con riferimento al destriero bianco di Mussolini. Una compagnia di assi che nelle intenzioni di Dino De Laurentiis avrebbe riscosso un successo strepitoso. Il testo era di Steno e Castellani (anche regista) con il supporto ombra di Leo Longanesi e Mario Soldati, musiche di Nino Rota, balletti di Aurel M. Millos. Sulla scena Paola Borboni, Carlo Campanile, Vittorio Caprioli, Sergio Tofano, Paolo Stoppa. Il fascismo era alle spalle, si poteva finalmente parlare e dire tutto, con gran sollievo. Passando a Piazza Venezia lo sguardo correva intrattenibile a quel balcone: “Piazza Venezia per tutti gli italiani è ormai come una notissima cocotte. Quando le passi vicino non puoi fare a meno di voltarti per guardarle il …”
Ma la recita si rivela un flop malgrado l’audace apparizione nature della prima attrice, accolta poco benevolmente dalla critica: “Ma per amor di dio, signora Borboni, perché quelle impudiche gramaglie?” Infierisce Espero su Il Corriere di Roma. Il pubblico ha fame di teatro leggero, non di intellettualismi; vuole ridere, distrarsi dai patimenti. Il 4 settembre al Salone Margherita va in scena “Volemose bene”, due atti di Fabrizi e Mattoli, in cui l’Orco buono, come lo chiamava Fellini, recita la sua bonarietà romana entusiasmando gli spettatori. Steno è in platea: “Mentre mi accomiato appare nella penombra il fantasma di Fellini”.
Alessandro Blasetti mira a fare un film dalla “Francesca da Rimini”, con l’apporto di Steno e Soldati, e chiama in rinforzo anche Sergio Pugliese, già commediografo di regime e pezzo grosso dell’Eiar (negli anni ‘50 diventerà direttore generale dei nascenti servizi televisivi della RAI): “E’ una di quelle persone che ti danno un dolore quando ti accorgi che su una cosa la pensano come te”. E Camerini ironizza sul regista con gli stivali: “Credo che Blasetti creda in Dio come «l’ordine dell’Aldilà». Se si sospettasse un Dio rivoluzionario Blasetti non ci crederebbe.”
Il lettore rivive una Roma magica e spettrale nei continui spostamenti del diarista, da una redazione all’altra, da un regista all’altro, ingollando pastiglie di simpamina per stimolare nervi e fantasia, in costante contatto con gli amici nelle trattorie obbligate: “Da Alfredo a via della Scrofa è rimasto solo il celebre nome in ditta: lui non si vede più. Forse per aver tenuto il Ministero delle Fettuccine prima del 25 luglio: les dieux s’en vont.” In cambio “Soldati ottiene un tesserino per entrare a mangiare al Circolo Ufficiali per 15 lire”. Per tutti, sempre, una battuta fulminante, veri baleni di magnesio. Come nelle sue rubriche sul Marfoglio, saporitamente attuali. I misteri d’Italia: “Le Sinistre non portano la cravatta. Le Destre sì. I Socialisti Riformisti abbottonano però il colletto. I Socialisti Rivoluzionari, no. Attività di fazzoletto al taschino tra i Democristiani”.
A Palazzo Venezia si organizza in omaggio ai liberatori una memorabile mostra sul Rinascimento Italiano. Steno si incanta davanti alla Flagellazione di Piero della Francesca, ma rimane tiepido con la Fornarina: “Raffaello è come una di quelle persone tanto intelligenti che non dicono mai nulla di intelligente”.
I caffè storici cambiano pelle: “Rosati è stato per così dire ‘rimodernato’; prima era un misto di liberty e neoclassico. Oggi le pareti lisce e glabre come quelle di un albergo diurno, ti fanno venir voglia di ordinare una « coppa Cobianchi ».” L’umore è sempre più nero, odiosi gli stenti: “Com’è faticoso lavorare a lume di candela. Alla sera come prima si comprava «Il Corriere della Sera» adesso si compra la candela”. L’insofferenza è a fior di pelle: “Al Quirinetta: l’eterno demi-monde che nessun avvenimento storico riesce a distruggere”. Ogni riga andrebbe citata, il diario è davvero una leccornia per chi ha il palato sensibile. E ci sono riflessioni anticipatrici: “L’aggettivo «costruttivo» è quello che rovina la nostra epoca”.
Anche la nostra.