In Turchia, meno di un anno. Eppure sembrava un paese ormai avviato al consolidamento della propria modernizzazione, tanto da immaginare un suo futuro ingresso nell’Europa, seppure con un percorso non breve, per via delle tante scorie del passato ancora non sciolte nel presente.
Il primo segnale di involuzione democratica non è il fallito golpe del luglio 2016, ma si avverte nell’Aprile precedente, quando Kahraman – politico dello stesso partito di Erdogan (AKP) – inizia a mettere in discussione la laicità del paese, parlando esplicitamente di sostituire la costituzione vigente, con una “religiosa”. Quando qualsiasi religione invade la sfera politica, finisce la libertà. Il potere arruola il suo dio, strumentalizzandolo come superstizione del comando. Poi, si inizia a picconare la costituzione depotenziando i suoi pilastri. Primo fra tutti, la divisione dei poteri, da sostituire con l’uomo solo al comando.
La Turchia è una lezione tragica.
Ci ricorda che la democrazia va vigilata. Ogni giorno. Da tutti. Con la parola pubblica. Perché è preziosa per quanto è fragile. E’ noiosa con la sua normalità a bassa voce, per quanto invece è esaltante un capo che urla “andate al mare”, “ci penso io”, “rottamiamo tutti”, “fidatevi di me”, Chi ci invita alla pigrizia civile, ci sta già sottomettendo.
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