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Piero Ottone, uno dei grandi del giornalismo del dopoguerra

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Avevo 16 anni quando ho incontrato per la prima volta Piero Ottone. “Sai che cosa consiglio ai giovani che vogliono fare i giornalisti? – mi sussurrò – Di imparare prima di tutto il cinese”. Più di trent’anni dopo la Rai avrebbe aperto un ufficio di corrispondenza a Pechino ed oggi, con il braccio di ferro sulla Corea del Nord, scopriamo che il conflitto di potere più grande si svolge proprio fra Washington e Pechino. Questo era Piero Ottone: lungimirante, acuto, ironico.

Impose al Corriere della Sera la sacralità anglosassone del weekend. La guerra contro Israele scoppiò di sabato e lo colse sulla sua amata barca a vela quando non erano ancora di uso comune i telefoni cellulari. Dopo ore di ricerche disperate tramite la capitaneria l’angosciato vicedirettore di turno (mio padre) riuscì a gridargli che era scoppiata la guerra ricevendo per tutta risposta un sardonico “beh, mica l’ho fatta scoppiare io”. Un tono di eleganza ironica e soprattutto auto ironica lo ha sempre protetto in frangenti drammatici.

E’ una figura atipica fra i grandi del giornalismo italiano del dopoguerra. Nemico della retorica, dell’egocentrismo, dell’ipocrisia e della vanagloria. Forse lo avevano vaccinato i suoi lunghi anni all’estero. O forse è stato decisivo per lui navigare nel suo Mar Ligure, dove le onde non si possono superare con parole o finzioni ma solo con scelte e manovre concrete adottate in fretta, senza annunci, ma con precisione e tenacia.


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