Fin dal ritmo tribale delle percussioni che accompagna il rientro a casa in auto dei due innominati protagonisti (la macchina da presa inquadra il lunotto posteriore e i personaggi di spalle), s’intuisce un’ostilità latente stratificatasi nel tempo, un coacervo silente di rancori, equivoci, invidie, che preme sempre più forte, disegnando rughe amareggiate e sarcastiche agli angoli della bocca, pronto a rompere la membrana del decoro per esplodere e dilagare in delirio a due, in nevrotico duello fisico-dialettico alla Polanski (si pensa più a Carnage che a Venere in pelliccia).
Le porte dell’abitazione si chiudono dietro di loro, e si riapriranno solo in pochi momenti sulla scala a chiocciola del palazzo, tangibile e metafisica come un incubo sornione di Dalì. Le finestre appaiono velate da una sorta di nebbia lattiginosa che rende l’appartamento simbolico e claustrofobico, così come l’arredamento sospeso fra pesantezza kitsch, elementi d’antiquariato e dettagli “alternativi” da borghesia intellettuale, mentre corridoi e stanze sembrano mutare struttura e sostanza – e infine dissolversi nell’ombra – man mano che si procede nell’acuminata quanto elusiva istruttoria coniugale cui assistiamo.
Lo scontro, o resa dei conti, o finale di partita, comincia in sordina, condotto con sottigliezza dalla coppia Buy/Castellitto, dentro una camera metà guardaroba e metà indefinita sala d’attesa con seggioline di plastica disposte in fila. Lui ha subìto un trauma cranico di cui non conosciamo l’origine e accusa un’amnesia pressoché totale. Sembra spaesato, fuori luogo, cerca – anche con un accenno di ironia – una collocazione fra i mobili. Non riconosce la moglie né altro. Lei si spoglia nervosamente e indossa una vestaglia. Si scambiano frasi brevi, monosillabi, lei cerca con fastidio (o con una certa noia?) di sollecitare la memoria dell’uomo. Lui ricorda a strappi, assemblando frammenti minuti di vita, tracce, indizi di sé e della moglie. Analizza gli oggetti per ricordare: le foto artistiche chiuse nelle grandi cornici (che la donna gli attribuisce, mentre in seguito scopriremo che l’artefice è lei), i numerosi gialli di successo e di infima qualità (secondo la moglie) di cui è autore. Questo inventario del passato solleva i detriti sommersi; la donna lamenta l’indole egoica del marito, l’uomo mostra disprezzo verso l’incapacità della moglie di realizzarsi come artista.
Apprendiamo abbastanza presto che l’uomo simula l’amnesia per condurre un gioco analitico connotato da orgoglio ferito e angoscia, mentre la donna asseconda o finge di assecondare questa perdita di memoria per cucire addosso al marito una nuova personalità: un individuo fantasioso, amante del tè e dello shopping, con un accentuato lato femminile. Un vestito di luce cangiante in grado di farla sorridere come un tempo, come durante il loro primo incontro, che entrambi rivivono – scambiandosi i ruoli – nell’unico momento davvero lieve del serratissimo dialogo.
Ma si tratta dei consapevoli, disperati miraggi di una donna che osserva il tempo mentre fa sfiorire le anime, prima ancora dei corpi, e le sottrae persino l’abitudine all’inferno, quotidiano e in qualche modo consolatorio. L’inferno è un posto caldo, e lì avevo il mio posto, dice la Signora priva di nome cercando di sorridere. Il presente consiste in un finto camino tecnologico che divampa senza scaldare, in abbracci sgraziati che simulano la foia ebbra dei “vecchi tempi”, nella paura dell’altro/a, nella nostalgia di un trasporto che non può più essere rivissuto, ma soltanto rappresentato.
Infascelli – che firma un film europeo, molto lontano dalla “morta gora” indigena, dalle commediole, dai melodrammi, dai supereroi suburbani e dalle convenzioni – racconta esattamente l’ineludibilità di questa rappresentazione. L’amore è qualcosa che non si può più raggiungere né modificare, quindi dipendenza e timore della perdita, anzi coscienza della perdita, quando non si traducono in simulazione inane, diventano paradossale tentativo di annientamento fisico dell’altro.
regia di Alex Infascelli
dal testo teatrale “Petits crimes conjugaux” di Eric-Emmanuel Schmitt
con Margherita Buy e Sergio Castellitto