Tornerà in campo la prossima settimana, esattamente mercoledì 26 aprile a Stoccarda, dopo aver scontato una squalifica di quindici mesi per doping. Maria Sharapova, che oggi compie trent’anni, si fece conoscere a livello internazionale grazie alla vittoria contro Serena Williams, a Wimbledon, nel 2004 e negli anni successivi si è spesso confermata ai vertici del tennis mondiale, salvo poi trasformarsi in una triste icona del consumismo globale, fino a smarrirsi fra le pieghe di un ingranaggio stritolante che ha finito col soffocarla.
Il guaio di questa splendida siberiana, infatti, è che non le manca nulla, né il talento né la bellezza né la gloria, ma ha in se stessa l’avversario principale, essendo un perfetto esempio di ciò che non funziona nel mondo contemporaneo.
Quando i soldi finiscono col contare più di ogni altra cosa, quando nella tua vita il business è più importante della classe, anzi sembra essere l’unica cosa che ti interessi davvero, quando ti sei trasformata in un’industria anziché in una persona e il tuo nome è ormai diventato un brand planetario che tutto ricorda tranne ciò per cui ti alleni ogni giorno, ecco, quando avviene tutto questo, hai posto le basi per una sconfitta che va al di là dei risultati conseguiti con la racchetta in mano.
La storia della Sharapova ricorda, in parte, quella di un altro divo dello sport: David Beckham, il quale fu protagonista indiscusso del magnifico Manchester United degli anni Novanta, salvo poi perdersi fra le nebbie degli sponsor e dei fiumi di denaro che iniziarono ad entrare nelle sue tasche, al punto che il pur lauto stipendio che gli passava il Real Madrid finì col costituire una percentuale esigua dei suoi guadagni.
La conseguenza di tutto ciò è che del biondo campione inglese ormai non se ne ricorda più quasi nessuno, che di quello che ha combinato sui campi di calcio di mezzo mondo non è rimasta quasi memoria e che molti, quando pensano a lui, se lo immaginano impegnato fra strette di mano e autografi, riflettori, pose e serate di gala, facendo passare in secondo piano le sue punizioni telecomandate e il tanto di buono che ha dato allo sport nel corso di una carriera lunga e sempre svoltasi ai massimi livelli.
È lo stesso destino di altri fuoriclasse delle rispettive discipline: baciati dalla sorte, dotati da madre natura di qualità atletiche fuori dal comune ma divorati da una società vorace, cinica, rabbiosa ed incapace di preservare la meraviglia, la semplicità e quel minimo di purezza e di gioia di vivere che distinguono chi costruisce cattedrali da chi finisce con l’impilare tanti mattoni uno sull’altro senza riuscire a dare un senso alla propria passione e alla propria stessa vita.