Una Francia lacerata e in crisi d’identità si scopre con sentimenti sempre più conservatori e si spinge verso destra, anche se fa baluardo alla forte performance della reazionaria, xenofoba ed euroscettica, Marine Le Pen. Il vincitore al primo turno delle Presidenziali, Emmanuel Macron (39 anni, il più giovane aspirante all’Eliseo nel dopoguerra), ribattezzato “le bébé” (vedere lo spot https://www.youtube.com/watch?v=HAmOK79bV2I) fra due settimane molto probabilmente sarà incoronato presidente dell’Esagono, come i francesi amano definire il loro paese, con il sostegno pesante della destra dei Repubblicani di François Fillon, il grande sconfitto al primo turno; ma anche degli altri leader ex-gollisti come Alain Juppé, Jean-Pierre Raffarin, François Baroin, Christian Estrosi, e il liberaldemocratico François Bayrou, l’unico che ha messo a disposizione del giovane candidato un’organizzazione partitica. Ma anche i reduci del Partito socialista, che hanno votato un grigio Benoit Hamon, ridotto ai minimi termini con il suo 6% di suffragi, si schiereranno con lui, in nome dello “spirito repubblicano” antifascista contro la Le Pen.
Più problematica invece la posizione del leader della sinistra alternativa, Jean-Luc Mélenchon, capo del movimento “La France insoumise”. Per Mélenchon il risultato raggiunto del 19% è un successo politico. Anche se è arrivato quarto, diventa però il collettore dei voti in uscita dal partito socialista, disgregato dalla ignavia governativa del “burocrate” Hollande, il presidente della repubblica che tra breve abbandonerà l’Eliseo (e forse anche la politica attiva) e che ha il record storico del più basso gradimento, il 14%.
Ma non sarà compito facile convincere i sostenitori di Mélenchon a votare Macron, visto come “Monsieur ni/ni”, cioè il “signor né/né”, che si vanta di non far parte della famiglia socialista, è per un’Europa meno rigorista, ma attento ai parametri teutonici di Maastricht circa il debito e il deficit statali; contrario al mantenimento delle 35 ore; favorevole all’innalzamento dell’età pensionabile e alla riduzione delle tassazioni per le imprese e i grandi capitali e che, soprattutto vuole attuare una “spendig review” nella pubblica amministrazione con la cancellazione immediata di 120 mila posti e l’abbattimento di 60 miliardi di euro della spesa pubblica (sanità, assistenza, scuola, welfare per le famiglie e indennità per i disoccupati). Il pacchetto di voti della “France insoumise”, insomma, rischia di assottigliarsi al ballottaggio e di andare invece ad incrementare l’abituale astensionismo che colpisce da sempre il secondo turno elettorale.
Certo avrà il sostegno delle due più grandi centrali sindacali del paese, la CFDT e la CGT, ma i loro rispettivi iscritti dovranno turarsi il naso, dopo aver manifestato più volte proprio contro Macron per le sue leggi “antisociali”.
Ma anche dalla destra dei Repubblicani ci si attende un travaso di elettori più verso la Le Pen, che a favore del giovane pupillo di Hollande. Il che rischia di dividere ancora di più l’opinione pubblica francese, di incattivire gli ultimi giorni della campagna elettorale e di far cadere il paese transalpino nell’instabilità di una deriva di una strategia della tensione, seppure in “salsa islamica”, che ha già fatto la sua prova generale con l’attentato ai poliziotti della settimana scorsa agli Champs Elysées di Parigi.
Il rappresentante dell’élite finanziaria internazionale (è stato per anni un manager della banca privata d’affari Rotschild), mai eletto ad incarichi pubblici e già ministro dell’economia, tra l’altro padre della contestatissima legge sul lavoro, creatore di un movimento “En marche!” (“in cammino”) che in pochi mesi ha saputo catalizzare i consensi dell’elettorato moderato di centrosinistra (“io non sono né di destra né di sinistra”, ama ripetere), in realtà impersona la faccia perbenista e compassionevole del neo-liberismo dominante in Occidente. Per questo, nella sua squadra ha arruolato giovani cervelli provenienti da famosi studi legali internazionalisti e da istituzioni finanziarie.
Anche se è attualmente accreditato di superare il 62% dei voti al ballottaggio, Macron rischia però di trovarsi senza una maggioranza all’Assemblea nazionale. Per la prima volta, infatti, i partiti storici, il socialista quasi disintegrato, e gli ex-gollisti sparpagliati, non parteciperanno al ballottaggio e potrebbero anche veder ridotta drasticamente la presenza di deputati alle prossime elezioni legislative di Giugno. E allora con chi potrà allearsi Macron? Chi sceglierà come primo ministro? Un esponente proveniente dai Repubblicani, non troppo a destra, oppure un socialista “sbiadito”, di sicura fede neo-liberista? Al momento, l’unico più accreditato è il suo alleato fin dagli inizi Bayrou, che vanta una lunga esperienza governativa, è sulla sua stessa lunghezza d’onda in economia e per la politica sociale; soprattutto è ben visto nelle cancellerie europee, essendo stato anche vicepresidente dell’Internazionale democristiana, del partito Democratico europeo e, insieme a Francesco Rutelli, è copresidente del Partito Democratico europeo.
Ma una Francia così divisa, orientata più a destra rispetto agli ultimi decenni e con una Marine Le Pen rafforzata, potrà reggere alle sfide della globalizzazione, della crisi economica mondiale, dell’instabilità nei paesi islamici e in quelli africani (dove è presente con suoi contingenti militari) e, soprattutto, potrà svolgere un ruolo non più subalterno nei confronti della Merkel e della politica “germanocentrica” dell’Unione Europea, dopo l’uscita di Londra?