Diciamo subito le cose come stanno: che i compensi di alcuni professionisti in RAI siano eccessivi, e in alcuni casi addirittura amorali, è sotto gli occhi di tutti, così come è sotto gli occhi che la qualità del servizio pubblico non sia minimamente all’altezza, nel complesso, della sua storia e di quella che dovrebbe essere la sua missione pedagogica.
Va anche detto, per onestà intellettuale e per rendere giustizia alle tante persone di cui non si occupa mai nessuno, che nell’azienda, dietro ai presentatori milionari e alle star con agenti sempre più pressanti e invadenti, vi sono tanti poveri cristi: lavoratori pagati poco, spesso sottoutilizzati, non adeguatamente valorizzati in base alle loro competenze e quasi mai promossi ad incarichi di maggior livello, in quanto regnano ovunque consorterie e dinamiche da parrocchietta sulle quali è opportuno sorvolare.
Tutto ciò premesso, vado in controtendenza e dico che Fabio Fazio, e non solo lui, sul tetto da 240.000 euro fissato per i compensi in RAI ha ragione. Ha ragione perché questa politica ipocrita e priva di argomenti, senza identità, senza valori e senza prospettive, dopo aver invaso per decenni il servizio pubblico, fino ad assoggettarlo ai propri desiderata, non può oggi trasformarlo nel campo di battaglia ideale per portare avanti proposte vieppiù demagogiche, il cui unico scopo è quello di solleticare le viscere di un Paese arrabbiato e deluso per le innumerevoli risposte di cui avrebbe bisogno e che essa non riesce a fornirgli.
Lo stillicidio di dichiarazioni contro Tizio e Caio, le richieste di dimissioni a casaccio, le cortine fumogene sollevate qua e là, la sistematica mancanza di rispetto, la delegittimazione costante e la corsa verso il baratro a chi la spara più grossa sono tutte espressioni di un declino che appare ormai inarrestabile, a causa di una classe dirigente che tale, nei fatti, non è e dell’avvicinarsi di una campagna elettorale che sarà, senza ombra di dubbio, la peggiore di sempre.
Quando si scontrano tre populismi complementari, ugualmente volgari e privi della benché minima credibilità, infatti, il risultato non può che essere la decadenza del Paese. Quando il partito che ha governato negli ultimi sei anni comincia ad affiggere manifesti contro i politici o a scagliarsi contro la casta e l’establishment, cioè di fatto contro se stesso, ecco che il degrado raggiunge vette impensabili, al punto che diventa impossibile ogni forma di confronto civile, di riflessione concreta, di analisi non inquinata dello stato dell’arte ed ecco che anche la RAI si trasforma, come detto, in un’arena da disseminare di cadaveri, primo fra tutti il buonsenso, con l’esito scontato di foraggiare ulteriormente i populismi originari e i pifferai magici che si ebiscono da anni sulla scena, abbindolando una popolazione stremata e desiderosa di vedere il sangue di chi l’ha condotta nell’abisso, psicologico quando non anche materiale, nel quale versa attualmente.
Perché non si può brandire la scure nei confronti di Fabio Fazio o di Carlo Conti, additandoli al pubblico ludibrio e facendone i capri espiatori della propria propaganda, non si possono trasformare dei personaggi noti nei nuovi nemici del popolo, in un clima da Rivoluzione d’ottobre senza, peraltro, un minimo del portato ideologico di quella lotta: non si può se prima non ci si interroga sulla natura intrinseca del servizio pubblico.
Se si accetta l’idea che la RAI non possa essere in alcun modo privatizzata, e ci mancherebbe altro, bisogna, ad esempio, pretendere dai suoi vertici che chiariscano una volta per tutte che rapporti intercorrono fra l’azienda e i summenzionati agenti, chiedendo espressamente di porre fine all’assurdità degli appalti esterni a pioggia e pretendendo un ritorno alla sperimentazione e alla valorizzazione delle risorse interne (e il caso Semprini-Berlinguer, tanto per citarne uno, dovrebbe fare scuola per tutti coloro che si approcciano alla materia).
Se si accetta l’idea che la RAI debba puntare non solo sull’auditel e sulle sue logiche perverse, tipiche delle tv commerciali, bisogna anche chiedere espressamente l’introduzione del qualitel e coinvolgere maggiormente gli utenti nella definizione di palinsesti e scelte dirigenziali.
Se si vogliono evitare altri casi Perego, anziché bruciare sul rogo la strega di turno, bisogna esigere da Campo Dall’Orto e dalla Maggioni che espongano un piano editoriale degno di questo nome e che tornino a ragionare sui palinsesti secondo logiche educative e costruttive: una vecchia battaglia di Enzo Biagi che, con la sua scomparsa, è caduta praticamente nel vuoto, tanto che oggi anche coloro che accusavano il povero Enzo Siciliano di aver ridotto la RAI ad una sorta di “terrazza” di Ettore Scola, rimpiangono a calde lacrime quel fior di intellettuale.
Inventarsi il nemico del giorno, esporlo all’improperio e all’insulto ferino della sora Lalla e del sor Pampurio e mettere sulla sua testa una sorta di taglia mediatica, simile a quelle che si vedevano nei vecchi western ma indegna di un paese non dico civile ma quanto meno con un livello giuridico superiore al Codice di Hammurabi, combinare tutto questo significa essere la classe politica italiana, ormai in preda al cupio dissolvi, all’isteria, all’ansia da prestazione e alla preoccupazione, oggettivamente comprensibile, di doversi presentare a breve davanti ai cittadini e di non sapere cosa raccontare loro, avendo fallito miseramente tanto sul versante dell’esecutivo quanto sul fronte di un’opposizione incapace di elaborare una visione alternativa dell’Italia e del suo futuro.