Venendo via dalle “cantine”, dall’ underground del Teatro di Ricerca, Scuola Romana degli anni sessanta e settanta, Memè Perlini -che se ne va per autodeterminazione, a pochi mesi dai settant’anni, con un brutto tuffo nella notte, in solitudine, sul selciato di Roma a due passi dal vecchio, per noi abitudinario mercato di piazza Vittorio- era stato il primo regista italiano, sospinto dal suo sodale e scenografo di una vita, Antonello Aglioti (morto due anni fa, sessantenne) ad uscire dagli spazi ristretti, dal ‘sottosuolo emozionale’, spontaneista, pauperistico-creativo di insegne storiche, quasi mitiche e non più esistenti, che issavano nomi quali Beat 72, la Fede, Metateatro, Il Parnaso, il Cenacolo, La Maschera, Spazio Zero e Spazio Uno a Trastevere- ed altre ancora che la memoria col tempo si ingoia.
Il Teatro della Piramide, attiguo al piazzale Ostiense, immaginato, disegnato, diretto da Perlini per circa tre lustri, dalla fine degli anni settanta sino alla sciagurata, forzata chiusura derivante dalla sciatteria politica e da mercantili interessi di media-bottega (riportare quei risanati depositi di ortofrutta alla loro originaria funzione), fu indubbiamente la realizzazione dell’utopia: offrire alla ricerca teatrale, ai suoi fini di perenne laboratorio di parola e immagine uno ‘sfondamento’ dagli spazi umidi e semiclandestini.
Disponibile ed accogliente ad affluenze che non fossero solo il teatro del duo Perlini- Aglioti (a ripensarci: il più fertile e duraturo della scena italiana del novecento, ‘dirimpettai’ inimmaginabili, ludico- trasgressivi del magistero attorale Valli- De Lullo), quello della Piramide fu epicentro e polo attrattivo (ci arrivavamo in tanti, da giovani, percorrendo la sonnolenta Roma serale e notturna, chi in 500 chi in motorino) di una spazialità paragonabile (in due sale contigue ed un confortevole foyer per ‘tapezzerie’ nottambule) ai set formato standard di Cinecittà e della dissolta “Città del Cinema” di Dino De Laurentiis sulla via Pontina. “La cavalcata sul lago di Costanza”, “Intorno a Garibaldi”, “Cartoline italiane” ,”Molly Bloom” , “Storia di un Soldato” , “Picasso”, “Eliogabalo”, “Le notti insonni” (da Buzzati) sono i titoli eminenti, e visivamente più fervidi, che- senza ausilio di teche, registrazioni, computer- compongono un surreale mosaico (a ghirigoro) nel ricordo di chi ha avuto la fortuna di svezzare se stesso e le proprie competenze alla ‘Libera Università Autodidatta’ di certo teatro sorgivo, guascone, avventuristico- ma rigorosamente ‘totalizzante’ nella sua stretta coincidenza fra pratiche di vita (antagonista ai conformismi di allora, di sempre) e immaginazione di una ‘zona franca’, nuova colonia post-pirandelliana, ove ipotizzare (anche per fallire) ‘altre’ forme relazionali (più schiette, complici, conviviali) fra pubblico e addetti ai lavori, fra critica militante ed avamposti della “rappresentazione” parabrechtiana, non più salottiera, ma luogo di sedizione e insubordinazione visionaria alle preposte gerarchie del sociale.
Lo stesso Perlini, di origini emiliane non troppo ‘distanti’ da quelle riminesi del grande Fellini, nato da una famiglia di giostrai e circensi ovviamente precari e girovaghi (come a quel tempo potevano esserlo Gelsomina e Zampanò) imbastiva le sue regie come ragnatele frenetiche ed oniriche, frammenti spesso ‘illogici’ di animati disegni o cartoni, “visual-virtuali piuttosto che fisici” (ombre, lanterne magiche, minimi trucchi scenici, quando i supporti elettronici stavano solo all’aeroporto) dentro un paesaggio teatrale in costante (ovidiana) metamorfosi, mutazione della forma e dello spirito inquieto, “oscillando fra surrealismo personale e nevrotica sensibilità”. Tutto ancorato ad un immaginario popolare, anzi tardo-infantile, scisso da contesti storici, urbanistici, etichette ‘acculturanti’ e adesioni a salotti del pensiero indebolito. Semmai, sia Perlini sia Aglioti, nuovi Fratelli Grimm di una bulimia favolistica (erotica, crudele, incantatesimale) che restituiva certe atmosfere inesplorate “in compagnia dei lupi” (della coscienza, oltre la ‘linea d’ombra’) e di tante paure (desideri) inconsci ritenuti, a quel tempo, innominabili, all’estremo indice della dannazione estetica e morale.
Amico ed allievo di Lindsay Kemp, compagno di strada di artisti della scena d’avanguardia che appartengono alla storia della cultura, e quasi nessuno adesso ricorda (Nanni, Di Marca, De Tollis, Marini, De Berardinis, Mario Ricci, Remondi e Caporossi, Pier’Alli), Memè Perlini, tra costoro, fu quello che più amò avventurarsi, divincolarsi in altre forme d’espressività ‘a suo rischio e pericolo’: dall’originaria pittura (suffragata da diploma all’Accademia) alla passione per il cinema, cui consegna due piccoli gioielli di filmografia indipendente, “Ferdinando” (dal capolavoro scenico di Annibale Riccello) a “Gran Hotel del Palmes” (sua opera prima, apprezzata a Cannes, ispirato agli ultimi giorni in Sicilia di Raymond Roussel, eccentrico scrittore di “Impressioni d’Africa”, morto suicida a Palermo nel 1933),
Pertanto, mentre trovava modo allestire (scritturato dai teatri tradizionali, dall’Argentina al Delle Arti di Roma, e poi in tournée europee) esemplari rappresentazioni- tutte sul filo di una ‘tiepida, declamata follia’-quali “Pirandello chi?”, “John Gabriel Borkman”, “Risveglio di primavera” “Il mercante di Venezia” (con lo strepitoso Paolo Stoppa), “Medea”, “La lupa”, “Ifigenia in Aulide”, “Cavalleria rusticana” (per la televisione), il suo volto rotondo e melanconico-occhiaie profonde e dolenti- trasognato ma ben desto (come felino disturbato mentre dorme), aderiva perfettamente a molti ruoli di caratterista occasionale, in b-movie o commedie licenziose (il boccaccesco anni settanta, sdoganato da Pasolini), riscattato in ruoli di maggiore rilievo ed in film d’autore come “Giù la testa” di Sergio Leone, “Voltati Eugenio” e “Cercasi Gesù” di Luigi Comencini, “Notte italiana” di Carlo Mazzacurati
Impareggiabile, infine, nel cammeo di impiegato di concetto al Ministero, pittore timidissimo in privato –Italia umbertina del secolo scorso- in “La famiglia” di Ettore Scola, dove era figlio ‘senza qualità’ del patriarca Vittorio Gassman. E’ in quel ruolo delicato e introverso che lo ricorda l’imperterrito, immarcescibile pubblico delle televisioni, che mai osò varcare la soglia di un teatro.
Ps. Riflessione supplementare che la morte di Perlini rafforza. Con l’eccezione di Giuliano Vasilicò, la cui formazione artistico-umanista (compiutasi in Svezia), si ispirava ai classici della letteratura europea (da De Sade e Musil), i protagonisti della sperimentazione teatrale italiana di quegli anni (che Franco Quadri suddivideva in ‘proto’ e ‘neo’), provenivano tutti da studi ed esperienze connesse alla Arti Visive (Nanni, Mambor, Caporossi: tutti eccellenti pittori). Da qui, anche inflazionata, l’egemonia del teatro-immagine nell’interrotto sviluppo dell’avanguardia teatrale alla quale ci riferiamo. Avanguardia che, per sua stessa natura, ebbe la durata e il propellente di tante “giovinezze” presto rientrate nei ranghi. E che – ad eccezione di Emma Dante e della sua elaboratà sorgività, dei Raffaello Sanzio perenni inventori di enigmatiche ‘macchine teatrali’ e della doviziosa, variegata programmazione del Teatro Elfo di Milano (spesso di tipo monografico)- non ha più avuto eredi, se non per sporadiche apparizioni o velleità. In un Paese culturalmente regressivo e imbarbarito dai gusti trash.