Si è parlato di mafia a Verona, all’incontro di formazione per giornalisti e commercialisti, organizzato nell’auditorium congressi del Banco Popolare dai rispettivi Ordini del Veneto, e coordinato dal giornalista Beppino Tartaro, trapanese di nascita e veronese d’adozione, impegnato nel fronte antimafia. Un sodalizio che nasce dal fatto che i giornalisti devono scrivere di mafia con cognizione di causa, e i commercialisti devono essere in grado di capire chi sono i loro potenziali clienti. Perché, ha detto Elio Veltri, giornalista, autore di numerose inchieste sulla legalità del sistema economico e politico italiano, «se alla mafia si danno anni di galera non riesce in maniera così violenta come reagisce quando le si tocca il patrimonio. Non è cosa da poco. C’è in gioco la situazione economica italiana. La mafia rapina il Paese attraverso la corruzione (60 miliardi di euro all’anno secondo un Rapporto dell’Unione europea); attraverso l’evasione fiscale, perché i mafiosi non pagano le tasse, risultano sempre nullatenenti (150-200 miliardi di euro all’anno); l’esportazione di capitali (il 30% circa dell’evasione fiscale, significa altri 60-70 miliardi all’anno); il riciclaggio di denaro, che è la più “grande azienda italiana”, tanto da non poter neppure quantificarla; l’economia criminale (200 miliardi di euro). Ecco perché la lotta alla mafia si fa portandole via tutto, altrimenti non si va da nessuna parte». Federico Loda, commercialista, esperto in diritto fallimentare, ha spiegato che cosa avviene quando un’impresa viene sottoposta ad amministrazione giudiziaria perché “in odore di mafia”. Interessante sapere che l’obiettivo del Testo unico delle leggi antimafia (D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159) non è bloccare l’attività dell’azienda, che andrebbe a discapito anche di chi vi lavora onestamente, inconsapevole della situazione, ma riportare l’azienda nell’ambito della legalità, ovviamente laddove ce ne siano i presupposti. «La gestione giudiziaria – ha spiegato – deve recidere tutti i rapporti e i vantaggi che la precedente gestione mafiosa aveva conferito all’attività imprenditoriale».
Il problema reale è che il Nordest sembra non voler comprendere la situazione. In una recente indagine di Demos, che rielabora dati per l’Osservatorio sul Nordest del “Gazzettino”, è risultato che solo il 20% degli interpellati ritiene che negli ultimi dieci anni la presenza della criminalità organizzata sia aumentata; il 70% ritiene la mafia poco presente; il 14% addirittura sostiene che la mafia non c’è o non c’è mai stata. Insomma, secondo l’opinione pubblica, sarebbe un problema del sud d’Italia. E questo, ha spiegato Enzo Guidotto, già consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata e presidente dell’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso, «a discapito di quanto affermano molti magistrati, che al nord non ci sono solo infiltrazioni mafiose, ma anche insediamenti, e che molti imprenditori veneti hanno “imboscato” rifiuti tossici nella terra dei fuochi. E nonostante quanto affermato da Salvatore Borsellino, fratello del giudice palermitano massacrato con la scorta in via D’Amelio, che qualche anno fa a Schio, nel Vicentino, ai ragazzi delle scuole disse: “La mafia è qui, nel Nordest, come in tutti i luoghi dove circola denaro. E qui è ancora più pericolosa perché non avete gli strumenti per individuarla, non ne avete la consapevolezza”. Le mafie si sviluppano proprio attraverso la sottovalutazione dell’opinione pubblica». Per Franco La Torre, figlio di Pio (autore della legge parlamentare che porta il suo nome, Legge Rognoni-La Torre, che introdusse nel codice penale il reato di associazione mafiosa), «la mafia non è un fenomeno di classi subalterne. C’è una compartecipazione tra potere legale ed extralegale. Bisogna sconfiggere questo sistema di potere; ma, per sconfiggerlo, bisogna conoscerlo. Mio padre non temeva Toto Riina, di cui conosceva bene le efferatezze. Il problema è a monte. La forza della mafia è la sua capacità di intimidazione, è lo sguardo dei mafiosi che fa paura. L’intreccio fra questo sistema di potere e la storia d’Italia viene da lontano ed è talmente forte da riuscire a determinare indirizzi ed obiettivi del Paese. L’antimafia, che in Italia lavora bene e questo suo ruolo le è riconosciuto a livello internazionale, ha bisogno di una forte mobilitazione del popolo italiano, perché è una lotta che riguarda i diritti fondamentali. La battaglia contro la mafia è parte della battaglia per la democrazia. Non ha bisogno di retorica, di celebrazioni, di giornate della memoria – anche se è bene che ci siano -, ma di un afflato collettivo».