Il crack Alitalia e quel fil rouge che lega l’insipienza dei governi Prodi, Berlusconi, Renzi

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Il crack Alitalia è frutto di una lunga e travagliata gestazione che dura da 20 anni, da quando nel 1998, durante il governo Prodi (già due volte presidente dell’IRI e uno dei maggiori economisti industriali d’Europa), si cercò di affiancare il vettore italiano ad una compagnia di bandiera in forte ascesa, come l’Air France, per acquisire quote di mercato e resistere alla forte concorrenza privata dovuta alla deregulation americana e britannica, che di lì a poco avrebbe portato al boom delle compagnie low cost. Questo fallimento industriale e finanziario alla fine è costato ai contribuenti 7 miliardi di euro!
Ripercorrendone la storia, s’incorre ci si imbatte nell’incapacità dei governi di centrosinistra e di centrodestra a indirizzarne lo sviluppo e l’ignavia dei management e delle rappresentanze sindacali nel comprendere le scelte più appropriate.

Aldilà dei privilegi antieconomici accordati al personale e al management, che avevano in pratica costituito una sorta di “cogestione societaria” attraverso le varie sigle sindacali, il gruppo negli anni Novanta godeva di una certa solidità finanziaria ed era tra le compagnie aeree più apprezzate sul mercato mondiale. Con la gestione dell’amministratore delegato Domenico Cempella (una carriera tutta interna, dagli Aeroporti di Roma fino ai vertici della compagnia), Alitalia era tornata agli utili e aveva intavolato trattative riservate con Air France, allora presieduta da Jean-Cyril Spinetta, oltre che con KLM. Il matrimonio sembrava cosa fatta verso il 1999: incontri frequenti a Roma e a Parigi, scambi di “dati sensibili” con l’ottica di arrivare ad una partnership industriale e scambi azionari.

Ovviamente, la compagnia italiana avrebbe mantenuto la sua autonomia operativa, seppure in stretta connessione con i francesi, ma qualcosa andò storto! Ad aprire le ostilità furono per prime le varie componenti del personale Alitalia, impaurite per eventuali tagli e per la perdita degli antistorici privilegi (i “cugini francesi” si erano già rapportati alle nuove condizioni del mercato) e per la fine del consociativismo. Anche le opposizioni (Berlusconi in primis) fecero propendere la bilancia verso la più piccola e meno ingombrante KLM. Ma quest’ultima intendeva fare del rinnovato e ampliato aeroporto di Malpensa il suo Hub per l’Europa meridionale, con voli destinati verso mete africane, mediorientali e asiatiche, in evidente concorrenza con l’altro Hub di Fiumicino.

Prodi e Cempella si trovarono così tra due fuochi, con gli spadoni della Lega lombarda di Bossi e Berlusconi, nel difendere Malpensa e quindi far propendere la scelta verso KLM; mentre la sinistra e una parte dei sindacati insorgevano nel difendere Fiumicino. Prodi e poi D’Alema e Amato, che lo sostituirono a Palazzo Chigi, cedettero su Malpensa come Hub e all’alleanza con gli olandesi. Poco dopo, Cempella si dimise: al suo posto subentrò Francesco Mengozzi, proveniente sempre dalla scuderia IRI. Si fece l’accordo con KLM che però si interruppe nel breve volgere di pochi anni con una penale di 250 milioni di euro, che gli olandesi dovettero pagare all’Alitalia.

Arriviamo al 2007 e 2008, quando ritorna al governo Prodi e si infittiscono i rapporti per salvare nuovamente Alitalia dal baratro. Si riprova l’alleanza con Air France, ormai legata a KLM, questa volta però da posizioni subordinate, viste le condizioni prefallimentari della nostra compagnia di bandiera. Insorgono un po’ tutti di nuovo, dalle rappresentanze sindacali al solito Berlusconi, il quale alla fine la vince inventandosi una “Compagnia di cavalieri coraggiosi”, in difesa dell’italianità della società. A noi contribuenti i debiti costarono quasi 4 miliardi con la “Bad company” gestita dall’ex-ministro Fantozzi. I “Capitani coraggiosi” amici di Berlusconi (Colaninno, Passera, i Benetton, Tronchetti Provera, Caltagirone, Carlo Toto dell’AirOne, gli Angelucci delle cliniche private, i Gavio delle Autostrade Milano-Torino) pagarono le attività solo 300 milioni. Il resto furono “lacrime e sangue” per i dipendenti e una drastica riduzione dell’operatività: cancellate rotte, ritirati gli slot da diversi aeroporti, dismessi molti aerei. L’Alitalia continuò nel suo costante declino fino al crack dei giorni nostri.

La “story case” ci evidenzia l’incapacità di Prodi a far valere le proprie scelte, di certo più lungimiranti, la dabbenaggine e l’insipienza imprenditoriale di Berlusconi e, da ultimo, il provincialismo di Renzi, pronubo dell’alleanza con Etihad che secondo lui avrebbe fatto “decollare Alitalia, così come l’Italia”. Tutti e tre, come uomini di stato, hanno dunque responsabilità sull’intera vicenda.

Quindi, ci sono le rappresentanze sindacali, incapaci di vedere oltre il loro naso, dove invece avrebbero portato alcune scelte di partnership innovative, con agli inizi bassissimi costi sociali. E’ vero che, a loro discolpa, c’è stato il sacrificio fatto agli inizi degli anni Duemila, quando s’impegnarono a finanziare parte del capitale societario, versando le loro liquidazioni, ricevendone alcuni posti nel CDA, ma anche azioni che nel giro di pochi anni si deprezzarono dieci volte!

La storia dell’Alitalia, per certi versi, pone qualche analogia con la vendita dell’Alfa Romeo alla Fiat nel 1986. Anche il quel caso protagonista nel bene e nel male fu Prodi, allora presidente dell’IRI. Si sarebbero realizzati 3.300 miliardi di lire con la vendita alla Ford, che si impegnava a investirne altri 4.000, ma sindacati e partiti (dalla DC, al PSI, al PCI) si opposero alla “svendita” agli americani. In nome dell’italianità vinse la FIAT di Gianni Agnelli e Cesare Romiti con un’offerta di 1.050 miliardi di lire in 5 rate senza interessi (ne furono sborsati solo 400 tra il ’93 e il ‘98). La FIAT si accaparrò il Biscione di Arese (l’auto italiana allora più venduta negli USA e in Germania) e alla fine chiuse gli stabilimenti storici dell’Alfa e in pratica licenziò gran parte dei dipendenti. L’Alfa Romeo divenne un “brand” del gruppo torinese, perdendo anche le sue rinomate prerogative di “ricerca e sviluppo”, che l’avevano inserita nelle big mondiali del settore, come uno dei “centri di eccellenza” della tecnologia italiana. La FIAT, oggi holding anglo-americana-olandese, è così divenuta   la monopolista dell’auto, inglobando anche gli altri marchi storici Lancia, Ferrari, Maserati.

In questi giorni alcuni autorevoli commentatori hanno addossato le maggiori colpe ai dipendenti per via del loro NO al Referendum e per l’attaccamento agli anacronistici privilegi (in controtendenza e con lungimiranza solo la Lucia Annunziata su HuffPost). Ma non è colpa loro se l’Alitalia ha perso quote di mercato è si è indebitata fino all’inverosimile. Da qualche anno, tra l’altro, il costo del lavoro della compagnia è alla pari con le altre low cost. Le scelte e/o non-scelte dei governi, a partire dalla fine degli anni Novanta, hanno determinato invece gran parte delle vicissitudini dell’Alitalia; così come le incapacità e l’ingordigia del management, compresi quelli sui quali si è affidata Etihad.

Una via d’uscita ci sarebbe da questa sciarada durata 20 anni: l’ingresso nel capitale, a tempo determinato, dello Stato tramite la Cassa Depositi e Prestiti, la cacciata del management e la richiesta dei danni per la loro cattiva gestione. Quindi la ricerca di un partner europeo affidabile e non “esoso”. Una strada che in altri settori è già stata percorsa dagli Stati Uniti durante l’amministrazione Obama.

Ma per una scelta del genere occorrerebbe un governo autorevole, non tentennante né succube dei ricatti politici dei partiti tradizionali e delle tante sigle sindacali. A ben vedere, però, sui cieli d’Italia quest’aereo con le ali salvifiche non è ancora apparso ai radar.


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