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Governo padrone dell’editoria tra buchi e gaffe

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Le leggi dell’era attuale sono poco più di un trailer di un film o di una fiction. Non sfugge a simile senescenza della democrazia parlamentare la riforma dell’editoria varata lo scorso 26 ottobre (l.198), cui stanno facendo seguito i testi delle deleghe. Non pervenuto per il momento quello delicatissimo inerente alla rete di vendita, questione assai seria su cui si tornerà più avanti, è invece in questi giorni sottoposto al parere delle Camere lo schema di decreto “recante ridefinizione della disciplina dei contributi diretti alle imprese editrici di quotidiani e periodici (407)”.

Abolita la Commissione tecnica per l’editoria, il Governo rimane l’unico padrone del campo.. A furia di delegare, davvero del doman non c’è certezza, a partire dalla data entro la quale deve essere emanato l’atto del Presidente del consiglio per la ripartizione delle risorse, per l’intanto rimossa. Eppure sarebbe stata la prima delle certezze da consegnare ad un settore in crisi profonda, disegnando una previsione almeno triennale. Ma l’occhiuto articolato si tiene lontano proprio da alcuni passaggi essenziali, come–ad esempio- la definizione di periodicità, decisiva per regolare davvero un territorio falcidiato e sofferente. Oltre un terzo delle testate interessate dalla norma ha chiuso i battenti e il quadro generale è sconfortante. La relazione illustrativa esordisce proprio, infatti, sui numeri impietosi della caduta degli dei: riduzione del 22% delle copie vendute nell’ultimo quinquennio, calo secco degli investimenti pubblicitari. Cui va aggiunta la pesante riduzione degli occupati, con la generale precarizzazione del lavoro. Torna, poi, la grottesca vicenda della distinzione tra “nazionale” e “locale”. Durante la discussione sulla legge vi fu sul punto un asperrimo dibattito, che vide ripristinare una ovvia differenza mediale (connessa alla percentuale del venduto, rispettivamente 20 e 30 per cento sul distribuito) scomparsa nella proposta originaria. Ora si ritorna di fatto al pasticcio iniziale, laddove si afferma all’articolo 5e che “è da intendersi testata nazionale quella distribuita in almeno cinque regioni con una percentuale di vendita in ciascuna regione non inferiore al 5 per cento della distribuzione totale” . Se la matematica non inganna, 5 per 5 fa 25. Qui, dietro l’aridità apparente del calcolo, si cela una bella insidia per le testate di opinione non radicate in un singolo luogo e che rischiano una secca decurtazione dei contributi. Tra l’altro, appare illegittimo che un decreto possa cambiare la legge e, quindi, è augurabile che simile gaffe venga immediatamente stralciata.

Dopo tante elegie dell’era digitale, ecco che la testa analogica colpisce ancora: per accedere ai contributi è eccessivo prevedere un minimo giornaliero di 20 articoli aggiornati almeno 3 volte al dì per le testate quotidiane e 4 volte alla settimana per i periodici (!?). Il digitale è un altro mondo.

Ci sono ulteriori “cadute” nei 33 articoli, sulle quali hanno già approntato pareri ed emendamenti le associazioni dell’editoria non profit.

Si è accennato al buio che avvolge il capitolo delle edicole. In una recente conferenza stampa delle organizzazioni sindacali (Snag Confcommercio, Sinagi Cgil, Uiltucs-giornalai, Fenagi-Confesercenti, Usiagi-Ugl, FeLsa Cisl) è stato evocato il pericolo del ritorno in grande stile del mito della liberalizzazione totale. Sperimentata anni fa e rivelatasi inutile. No.Le edicole sono una rete formidabile e, appena conclusa l’informatizzazione, diventeranno un’eccellenza.


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