Pur con disfunzioni e vaste problematiche, nell’ultima settimana la Casa Bianca ha avuto un gran daffare in particolare sull’assistenza sanitaria e sulle questioni fiscali. Sul primo fronte, la bozza della cosiddetta ‘Trumpcare‘ va suscitando preoccupazioni e opposizioni diffuse. Citando fonti autorevoli (tra cui AARP, American Medical Association, American Cancer Society), Moveon.org sostiene che 14 milioni di americani perderanno i benefici sanitari nel 2018 e fino a 24 milioni nel prossimo decennio, mentre i più anziani che potranno permetterselo finiranno col pagare premi 4-5 volte più esosi di quelli attuali.
Intanto quasi 60 parlamentari repubblicani si sono dichiarati scettici sui puntelli sostitutivi della ‘Obamacare’, preannunciando difficoltà per l’eventuale approvazione in aula del testo attuale (basta la maggioranza semplice). Motivo per cui l’attivismo locale sta già premendo sugli eletti del gruppo democratico per un’opposizione dura e compatta. A cui sta dando man forte l’attivismo diffuso, a partire da una petizione online di Daily Kos che ha già superato le 235.000 adesioni.
Quello che è stato un cavallo di battaglia della campagna Trump, l’affossamento della ‘Obamacare’, va rivelandosi difficile da vendere perfino alla base conservatrice. Ciò nonostante la convinta discesa in campo del capogruppo GOP alla Camera, Paul Ryan (tant’è che si parla di ‘Ryancare‘). Molti prevedono anzi un ulteriore flop, al pari del ‘travel ban‘, la cui versione rivista è stata nuovamente bloccata, perché ritenuta incostituzionale, da un giudice distrettuale delle Hawaii, a meno di sei ore dalla sua ipotizzata entrata in vigore.
Sul fronte fiscale le posizioni di Trump appaiono perfino più controverse. Non a caso, dopo le ampie proteste per l’inaugurazione, la Womens’ March, gli immigrati in piazza e la recente calata dei Nativi Americani, nella capitale Washington DC la prossima manifestazione nazionale (in aggiunta a molti eventi già scadenzati a livello locale e anche in varie città del mondo) è prevista per sabato 15 aprile. Tradizionalmente, l’ultimo giorno per la presentazione della dichiarazione dei redditi 2016: la Tax March. Obiettivo è quello di mandare un messaggio chiaro e forte: il presidente deve dar conto dei propri interessi imprenditoriali davanti al popolo americano. Come si legge anzi sull’omonimo sito web:
La Tax March non è un’organizzazione, bensì un movimento che va conquistando attenzione in tutto il Paese. Nella campagna presidenziale 2016, Donald Trump ha ripetuto agli elettori che avrebbe divulgato l’ultima dichiarazione dei redditi e chiarito così i suoi affari imprenditoriali, come è successo per decenni con tutti i candidati e presidenti. Tuttavia, nonostante la continua pressione pubblica, finora non l’ha fatto. La mancata diffusione della documentazione fiscale gli consentirebbe insomma di tenere nascosti rapporti d’affari o legami finanziari sul filo del lecito.
L’organizzazione è in fermento soprattutto grazie a Twitter (#TrumpTaxesMarch), mentre va ricordato che una petizione popolare in tal senso, diffusa sul sito ufficiale WhiteHouse.gov, ha superato le 140.000 firme, cifra che impone alla Casa Bianca di dare una precisa risposta pubblica. Anche se finora Donald se n’è fregato bellamente, come d’altronde per altre norme e consuetudini di taglio presidenziale, con la scusa che alla gente simili storie non interessano. Ma la verità è ben diversa, come confermano gli stessi rilanci sui social media. Riuscirà a farla franca anche stavolta?
Al riguardo va aggiunto che online circola la raccolta-firme a sostegno del disegno di legge appositamente denominato “Presidential Tax Transparency Act”, presentato dal senatore democratico dell’Oregon Ron Wyden. Né poteva mancare l’ultimo ‘leak’: due paginette della dichiarazione dei redditi di Trump risalente al 2005. Il dato saliente è che ha “ottenuto il 20 per cento di sconto sui pagamenti dovuti“, spiega il David Cay Johnston, autore dello ‘scoop’ per DCReport.org (con anteprima nel ‘Rachel Maddow Show’ su MSNBC). Ma non basta: la riforma fiscale allo studio punta a eliminare del tutto proprio questo tipo di tassazione (‘alternative minimum tax’). Come ha chiarito lo stesso giornalista investigativo e Premio Pulitzer (con il New York Times), nonché autore del libro The Making of Donald Trump alla vigilia delle presidenziali dello scorso anno:
In America abbiamo un sistema fiscale che tassa in maniera effettiva ed efficace il salario, il reddito. Ma per chi è un imprenditore di alto livello, come Donald Trump, e ben disposto a trarre vantaggio da dubbi sgravi fiscali e manovre poco chiare, come fa Donald Trump, allora riesci a pagare davvero poco al fisco. E siccome durante la campagna elettorale è stato costretto a rendere pubblico qualche dettaglio sul tema, sappiamo che ci sono stati almeno due anni in cui Trump ha pagato zero tasse sul reddito.
Infine, Johnson suggerisce che sia stato lo stesso Trump a diffondere questo ‘leak’, come già in passato per notizie che lo riguardano e soprattutto per depistare giornalisti e pubblico: mezze verità e distrazioni atte a coprire questioni bollenti e di ampio respiro, da profondi conflitti d’interesse al ‘Russiagate’ ai passi per azzerare l’Agenzia ambientale, ad esempio. Oltre che per far dimenticare una gestione presidenziale che continua a dimostrarsi caotica e problematica.