La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’Hijab riporta violentemente alla luce quell’idea, poco illuminata, che vuole convincere l’intera Europa sul diretto rapporto tra il velo islamico e il terrorismo che ha segnato drammaticamente anche il territorio europeo. Il fatto stesso che a parlare, questa volta, non siano la politica o associazioni razziste, ma la Corte Europea desta non poche preoccupazioni su quello che sta avvenendo nelle città europee. La convinzione che l’affermazione della laicità passi mediante l’abbattimento di qualsiasi altra scelta che non risponda ai suoi cosiddetti principi tende a prendere il sopravvento.
Molto ci sarebbe da dire su cosa significhi, oggi, essere laici, super partes e rappresentanti di un bene comune che rispetti le differenze. C’è un’Europa sempre più multi-etnica e multi-religiosa dove le seconde generazioni vivono in pieno le contraddizioni dell’incapacità delle Istituzioni di mettere a disposizione tutti gli strumenti utili ad una effettiva inserzione. La cosa nuova che si affaccia con questa sentenza è però il rifiuto ad accettare che quelle donne musulmane, nonostante il simbolo che per molti rappresenta sottomissione, vogliano lavorare per la propria indipendenza e per il proprio futuro, vogliano essere parte integrante nei Paesi in cui, molto spesso, sono nate, hanno studiato e vogliono continuare a vivere.
La sentenza, non pone, altresì, solo l’accento sulla discriminazione delle donne musulmane ma sul rinnovato tentativo di discriminare le donne nei luoghi di lavoro. Non sono passati molti anni dall’approvazione, in Italia, di norme volte al contrasto del drammatico fenomeno delle dimissioni in bianco ed ecco affacciarsi in Europa un indirizzo che pone vincoli ostativi alla libertà delle donne e al loro diritto di autodeterminazione.
Molte ancora le difficoltà: nel 2014 il tasso di occupazione degli uomini nell’UE-28 era del 70,1 %, mentre quello delle donne era del 59,6 %. Significativo quanto avviene in Europa nell’ambito scientifico e tecnologico. Nonostante il numero di donne con un titolo di laurea stia crescendo in media a un tasso maggiore rispetto a quello degli uomini (4,4% all’anno tra il 2003 e il 2012, contro il 2,2% degli uomini nello stesso periodo), le laureate in materie scientifiche e tecnologiche rappresentano ancora solo l’1,1%, meno della metà del numero di uomini laureati nello stesso settore, che costituiscono invece il 2,3% (fonte Eurostat).
Il rapporto She Figures 2015 della Commissione Europea sulla parità di genere nell’ambito delle scienze e dell’innovazione, conferma che le donne continuano ad essere in minoranza nelle posizioni apicali del settore dell’educazione avanzata. In particolare nel 2014, tra i 22 paesi oggetto di analisi, in 14 paesi le donne rappresentano meno del 40% dei consigli scientifici e amministrativi, nonostante dal 2010 si sia registrato un leggero incremento delle quote rosa.
E’ quindi evidente quanto lavoro sia ancora necessario perché la parità di genere sui luoghi di lavoro, anche e non solo nel settore scientifico, è ancora lontana dall’essere raggiunta. Le donne hanno dovuto lottare per irrompere nel discorso pubblico come soggetti con capacità di pensiero e di opinione rivendicando il diritto di scegliere e continuano a lottare contro violenze, discriminazioni e pregiudizi. Lo hanno ogni volta fatto insieme sempre consapevoli che la loro forza era la loro capacità di essere unite nonostante le differenze.
In questo contesto il silenzio che ha avvolto le Organizzazioni femministe europee sulla vicenda delle lavoratrici musulmane licenziate assume il drammatico significato di chi non vuole riconoscere al proprio interno la matura capacità di una donna europea e musulmana di scegliere autonomamente in merito alla propria vita. L’inconsapevole idea imperialista di imporre, a poche, le scelte di una maggioranza.
Il velo è, per le donne musulmane, un precetto, stabilito dal parere unanime di tutta la giurisprudenza islamica, anche se la modalità tecnica di portarlo è oggetto d’intenso dibattito. Non si può obbligare una donna a scegliere tra il suo rapporto con la fede e il suo diritto all’emancipazione attraverso il lavoro e l’autonomia economica. Un copricapo che è parte della nostra fede e che nulla toglie alla libertà degli altri. In un mondo in cui l’apparenza e l’identità sono sempre più campi di battaglia politica e dove le differenze diventano motivo di pregiudizi ancora una volta rischieranno di pagare le donne.
*Componente del Comitato promotore dell’Assemblea Costituente Islamica d’Italia.