In questi giorni di febbrile corsa a capire che cosa è successo a Londra, di analisi geopolitiche, di sfilate dei soliti noti alla tv, non ricordo di aver visto molta stampa parlare dei cinque attentati suicidi che la mattina del 22 marzo nella città di Maiduguri, nel nordest della Nigeria, hanno provocato 8 morti e 20 feriti. Non c’è stata rivendicazione ma, poiché il commissario di polizia dello Stato del Borno (di cui Maiduguri è capitale federale), Damian Chukwu, ha dichiarato che le esplosioni sono avvenute nell’area di Muna Garage, dove si trovano i campi in cui risiedono i profughi fuggiti dalle azioni di terrore di Boko Haram (setta islamista fondata in Nigeria nel 2002 dal predicatore salafita Mohammed Yusuf), e nella città si trova il quartier generale del comando delle forze armate nigeriane impegnate proprio nel contrasto alle attività dello stesso gruppo terroristico, qualche scenario si comincia a delineare.
Mi ricorda il 7 gennaio 2015, quando a Parigi venne colpita la sede del giornale satirico Charlie Hebdo (12 morti e 11 feriti): l’attentato impattò enormemente sull’opinione pubblica europea, che si sentì “colpita al cuore”. Contemporaneamente in Nigeria, gli stessi miliziani di Boko Haram (il cui nome completo è Jamaat Ahl al-Sunna li al-Daawat wa al-Jihad, ovvero Gruppo della Gente della Sunna per la propaganda religiosa e la Jihad) facevano strage sempre lì, nello stato di Borno (circa 2.000 morti). Una notizia che rimase una non-notizia per quasi una settimana, perché gli occhi della stampa erano puntati sulla città della Torre Eiffel, come se i morti africani fossero morti di serie B. E anche oggi si continua a considerarli tali. L’esistenza di un terrorismo islamico africano è valutata per lo più in relazione alla possibilità di infiltrati tra i migranti che arrivano da noi per farsi esplodere in Europa. Self bomber da espatrio imbarcati su carrette del mare. Mah. Eppure è anche il leit motiv delle trasmissioni di questi giorni. Ma gli attentati che hanno colpito la Tunisia, la Costa D’Avorio, più volte il Kenya, hanno dimostrato che i gruppi terroristici agiscono anche in Africa.
A maggio 2015, l’allora neopresidente Muhammadu Buhari, aveva detto che la guerra contro Boko Haram era “tecnicamente vinta”. Sono passati due anni e il gruppo terrorista, che è stato combattuto dall’esercito anche del Ciad, probabilmente ha attenuato la sua capacità di offensiva, ma è ancora lì, vivo e vegeto, sicuramente pronto ad allearsi, alla bisogna, con altre sigle terroristiche, che non mancano.
La grande incognita è la capacità di espansione del terrorismo in Africa. Perché i terroristi amano agire nei Paesi più stabili proprio per… destabilizzare. Ecco la scelta di muovere verso il nord del Camerun. I rapimenti nel 2013 di un’intera famiglia francese, di padre Georges Vandenbeusch, e nel 2014 dei preti vicentini don Giampaolo Marta, don Gianantonio Allegri e della suora canadese Gilberte Bussiéré, tutti rivendicati da Boko Haram (che proprio nel 2013 fu dichiarata organizzazione terroristica dal dipartimento di Stato Usa), ne hanno dimostrato la penetrazione anche nel “Paese dei gamberetti”. Un Paese in pace da oltre 50 anni, un Paese di integrazione religiosa, aperto al mondo, dal 2013 si è trovato il terrorismo in casa. Da quelle frontiere disegnate sulla carta, ma che non sono mai diventate reali, è sempre passato di tutto. Ero lì nel 2011 e transitavano motorette con pezzi di ricambio che in Nigeria costano meno, oppure carburante, droga, dopo armi e persone, profughi in fuga. Facile per i miliziani infiltrarsi tra loro.
Boko Haram aveva, non solo sconfinato, ma aveva posto una specie di quartier generale sulla fascia di confine; lì scaricava i rapiti fintanto che la richiesta di riscatto non veniva soddisfatta. Ma i rapimenti sono serviti anche ad un altro scopo: emergere sulla scena internazionale, attraverso i media. L’azione più eclatante, che accese i riflettori a livello mondiale, fu il rapimento delle 200 studentesse di una scuola di Chibok. Quanti siano i miliziani non è facile sapere. Perché non c’è solo chi è impegnato direttamente, ci sono anche i sostenitori, che supportano, nascondono, perché laddove la pancia è vuota e l’analfabetismo impera, chi arriva con il denaro è ben accolto.
Settantacinquemila camerunensi sono scappati verso le città più interne, come Mozogo, Moskota, Mokolo, perché lungo il confine l’insicurezza persiste. Dopo il rapimento dei preti della diocesi di Vicenza, i religiosi stranieri sono stati evacuati. Nei villaggi rimangono i pochi preti locali, mentre i missionari come fratel Fabio Mussi del Pime, o le suore vicentine della Divina Volontà vivono in Maroua, capitale della provincia dell’Estremo nord, e da lì si muovono solo sotto scorta. Inoltre, in poco tempo in Camerun sono arrivati 85mila sfollati nigeriani, dando vita ad una serie di campi improvvisati, che mettono a dura prova un Paese già povero.
Se è vero che l’Europa deve guardarsi dagli “attentatori fai da te”, o “schegge impazzite”, che dir si voglia, o dai “foreign fighter di ritorno”, o dagli stessi europei radicalizzati, non dimentichiamo mai di ampliare il nostro sguardo. L’Africa è terreno fertile per l’affermarsi dell’estremismo, perché permangono le ingiustizie sociali, causate dalla persistenza di regimi totalitari e disinteressati ai bisogni delle popolazioni, permangono la povertà, la scolarizzazione inadeguata, le malattie, il land grabbing, la siccità, e la rabbia verso le continue intromissioni e ruberie del mondo occidentale cresce.
Non c’è solo Boko Haram. Il terrorismo in Africa ha più ramificazioni, c’è chi è affiliato a Isis, il brand che al momento va per la maggiore; chi resta fedele ad al-Qaeda, pur con caratteristiche proprie, e poi ci sono gruppi di gente che non ha nulla da perdere, che nascono, si fondono, si dividono, più soggetti al denaro facile, alla violenza per la violenza, che non a grandi progetti di jihad internazionale, ma pronti a farne parte se reclutati con “buone offerte”.