Da oltre venti anni nei miei corsi di diritto penale in varie Università italiane ed estere ho sempre insegnato che la legittima difesa è una causa di giustificazione che impedisce la punizione di un fatto che comunque costituisce sempre reato. Se non si comprende questo aspetto imprescindibile è difficile comprendere il resto del discorso. Occorre concepire che l’uso della violenza, della forza, è sempre vietato, si tratta di una prerogativa che lo Stato riserva esclusivamente a sé stesso e solo in casi eccezionali e tipici, per esigenze particolari di autotutela. Quando è chiaro che non è possibile un intervento tempestivo dello Stato allora è ammissibile una deroga al monopolio statale dell’uso della forza.
Questa precisazione in uno Stato di diritto è un punto fermo ed inattaccabile pena il venir meno degli stessi principi di civile convivenza di una comunità sociale. In nessun modo lo Stato può legittimare ipotesi di cittadini che si fanno giustizia da sé. Che poi in specifiche situazioni, tassativamente previste dalla legge, lo Stato eviti di punirlo, è ben altro discorso. Sono certo che incitare il cittadino alla giustizia “fai da te” sia una scelta insensata. Il cittadino onesto non si deve illudere di poter competere con il delinquente perché è un errore madornale. Non mi piacciono i cittadini-sceriffi che si armano pronti ad ogni evenienza. Bisogna considerare che anche il delinquente si adeguerà a questo rischio ed entrerà in casa pronto a rispondere o peggio pronto a sparare per primo. Incentivare la legittima difesa contro il topo d’appartamenti è una soluzione barbarica, perché di fatto fa scendere il valore di una vita umana al livello dei beni materiali.
La soluzione al problema allora quale sarebbe? Senza dubbio alcuno quella di responsabilizzare lo Stato che sostanzialmente deve fare il suo dovere: da un lato reprimere i reati e difendere i cittadini onesti, e dall’altro rimuovere le condizioni di degrado sociale che portano alla delinquenza. Il mio maestro di diritto penale, un certo Giuliano Vassalli, era solito dirmi che armare il cittadino significava segnare la fine del modello rieducativo della pena. Io la penso esattamente come lui.
La cultura dell’autodifesa armata non può appartenere ad uno Stato di diritto di matrice solidaristico sociale come spero sia ancora la nostra democrazia.
*direttore della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise