Una giornalista, tosta, ma anche madre: una donna non più giovanissima che continuava a coniugare i doveri familiari con l‘impegno professionale, che era poi anche civile. Miroslava Breach aveva 54 anni, era appena andata a prendere il figlio a scuola a Chihuahua, Messico. Era appena risalita in auto quando si è avvicinato il killer: otto colpi di pistola, un’esecuzione. In realtà Miroslava ha iniziato a morire sei mesi fa, quando sono arrivate minacce sempre più dure: «Ti abbiamo ucciso», le dicevano annunciandole che la sentenza era stata emessa da quel tribunale invisibile composto da cartelli, politici corrotti e malaffare. Adesso molti piangono la reporter, ci sono state manifestazioni di protesta, interventi dall’estero. Le autorità esprimono vergogna. Peccato che non si siano preoccupate quando i banditi hanno iniziato la loro campagna per fermare la Breach. Naturalmente si pensa ai narcos, al cartello di Juarez, ma i colleghi della vittima invitano a guardare anche altrove, alle altre inchieste della vittima: riciclaggio, pozzi d’acqua illegali, infiltrazioni delle gang nei municipi, patti tra partiti e organizzazioni di trafficanti.
Ormai il Messico è territorio di guerra. Oltre 120 giornalisti ammazzati dal 2000 e quasi tutti i delitti irrisolti. Sempre a marzo uccisi Cecilio Brito e Ricardo Cabrera. La disintegrazione dei network criminosi ha portato al «tutti contro tutti». Persino la fazione de El Chapo, oggi in carcere, è smembrata dalla faida. Si disegnano scenari nuovi, alleanze nuove. E per chi cerca di capire non c’è scampo.