Dietro i volti dei profughi dei corridoi umanitari, tante storie diverse ma un’unica speranza: quella di una vita migliore.
di Daniela Mazzarella
Essere presenti all’aeroporto di Fiumicino mentre arrivano i profughi dei corridoi umanitari è un’esperienza che si ricorda. Volti stanchi, provati ma felici. Sguardi stupiti per l’accoglienza da star, la conferenza stampa, gli scatti dei fotografi, i microfoni dei giornalisti. Tutto molto emozionante, coinvolgente, chiaramente “sicuro”, legale.
In un anno con i corridoi umanitari sono arrivati dal Libano in Italia poco meno di 700 profughi. Dietro i loro volti tante storie diverse ma un’unica speranza, quella di una vita migliore.
Dietro l’arrivo dei profughi – uomini, donne, bambini ed anziani – c’è una grande macchina organizzativa che ha però solo un piccolo nucleo di elementi sul territorio libanese a cui è affidato un compito gravoso, quello di predisporre le liste degli eventuali beneficiari da sottoporre alle autorità consolari italiane di Beirut che accordano il visto di entrata in Italia per motivi umanitari. I criteri usati sono due: quello della vulnerabilità e quello delle maggiori possibilità di integrazione.
Nelle scelte che riguardano il primo caso le organizzazioni umanitarie rappresentano vere e proprie ancore di salvezza. Persone con storie e vissuti inimmaginabili – per noi, così lontani dalle vere guerre – e persone con malattie incurabili in Libano dove la sanità è privata.
Casi come quello della piccola Falak, 7 anni, malata di cancro e arrivata in Italia il 4 febbraio dello scorso anno. Lei e la sua famiglia sono stati i primi profughi portati in salvo con il progetto dei corridoi umanitari. Yasmine e Suliman sono i genitori di Falak; con lei e suo fratello Hussein sono fuggiti da Homs dove la guerra aveva distrutto loro la casa, il lavoro ed ogni speranza di poter rimanere lì. Scappati in Libano, hanno vissuto in un piccolo garage umido e pericoloso nella periferia di Tripoli, al confine con la Siria, con la piccola malata e bisognosa di cure alle quali non poteva accedere. Pochi giorni dopo l’arrivo in Italia, Falak è stata operata all’occhio e ha iniziato la chemioterapia all’ospedale pediatrico Bambino Gesù, che sta dando buoni risultati.
Proprio Yasmine, la mamma di Falak, ha segnalato agli operatori di Mediterranean Hope (progetto della Federazione delle chiese evangeliche in Italia) che si occupano dell’individuazione dei possibili beneficiari dei visti il caso di Diya, che lei aveva notato nella stessa scuola della figlia a Tripoli. Diya ha perso una gamba nel novembre del 2011 mentre stava giocando con altri bambini, in strada sotto casa sua ad Homs. Un mortaio è esploso provocandogli una ferita che è stata sommariamente curata con l’amputazione della gamba. Aveva 10 anni e da allora è costretto a camminare sulle stampelle. Qui in Italia ha ricevuto una protesi donata dalla Fondazione Bimbi in gamba e verrà seguito durante tutta la crescita.
Storia anagraficamente opposta quella di Mariam, che a 71 anni cerca una nuova vita. È cristiana e non conosce l’arabo, parla solo la lingua assira. Proviene da Al Hasaka, città nel nord della Siria abitata in prevalenza da curdi e da dove è dovuta scappare all’arrivo di Daesh per evitare di essere uccisa o rapita. In Libano ha vissuto in un ex lavatoio con un letto e una stufetta, completamente sola perché tutti i suoi parenti erano già emigrati. A Fiumicino, infatti, è venuto ad accoglierla un nipote che ora vive in Svezia.
Le donne sono spesso tra gli elementi più vulnerabili, in questa come in altre situazioni.
Tristemente ricca di violenza di genere è, per esempio, la storia di Kananah. A poco più di trent’anni si trova a dover scappare da al-Zabadani nel sud della Siria; sola con tre figli, dopo la morte del marito. Una vita piena di vicissitudini drammatiche e angosce di ogni tipo. Soprusi e ingiustizie sono alla base della sua quotidianità, fino a trovarsi schiavizzata da un uomo che la costringe a lavorare in cambio di un posto dove dormire. Si trova nella Valle della Bekaa, nel nord-est del Libano, in una casa umidissima e fredda, dove il “padrone” la tiene praticamente prigioniera, arrivando a picchiarla per futili motivi. Per permettere a Kananah e ai sui figli di prendere l’aereo per l’Italia si è arrivati a dover organizzare nella notte una vera e propria fuga.
Queste sono solo alcune tracce dei drammi che conoscono bene i profughi che sperano di avere uno dei mille visti umanitari previsti per il progetto dei corridoi. Poi ci sono i casi che rientrano nella seconda tipologia di criteri di scelta, quella che spera e prevede un buon piano di integrazione nella nostra società. In questi casi spesso si trovano le storie di persone che non avrebbero mai pensato di scappare in un modo disperato, come su un barcone rischiando la vita, ma che comunque subiscono una situazione tale da essere a tutti gli effetti soggetti a protezione internazionale. Infatti tutti i profughi giunti in Italia con i corridoi umanitari già all’aeroporto di Fiumicino avanzano regolare richiesta di asilo e, fino ad ora, il Ministero dell’Interno ha accolto il 100% delle richieste.
Una di queste è Leen, venticinque anni, scappata dalla Siria dove tra l’altro non poteva più studiare. Dato il numero limitato di visti, per la sua famiglia c’era soltanto un posto a disposizione e così i suoi genitori, rimasti lì con il fratello, hanno deciso di far partire la più piccola di casa per cercare di farle continuare gli studi di economia. In Siria viveva a Damasco, dove non si può uscire con tranquillità, l’acqua e il cibo costano moltissimo e non è più possibile neanche sognare una vita normale. Leen ha portato con sé le cose strettamente necessarie, ma nella valigia ha messo anche alcuni ricordi, come le foto della sua infanzia quando faceva danza.
Mirvat, quasi ventiquattrenne, è un esempio di perfetta riuscita del secondo criterio di scelta dei corridoi. La distruzione della guerra ha impedito anche a lei di continuare gli studi. Viveva ad Aleppo ed è arrivata in Italia con la sola speranza di poter continuare l’università. Dopo qualche mese ha vinto una borsa di studio e ora vive a Ferrara dove sta studiando Lettere moderne.
Storia un po’ diversa è quella di Nakleh: lui viene da Homs e tra poco compirà trent’anni. Prima dell’inizio della guerra aveva una vita felice e agiata; la sua famiglia è cristiana – padre ortodosso e madre evangelica – e lui pensa che le religioni non siano importanti. Nakleh ricorda con emozione e tristezza i tempi sereni di qualche anno fa, interrotti bruscamente dall’arrivo della guerra. Il padre, ingegnere, ha perso il lavoro, la vita è diventata molto difficile e pericolosa e non si è potuto più continuare a studiare. È così che Nakleh ha deciso di spostarsi a Beirut, dove ha vissuto con altri quattro ragazzi e ha lavorato in un supermercato per mandare aiuti economici alla sua famiglia.
Poi Nakleh ha sentito parlare dei corridoi umanitari e ha subito ripensato ai due esami che mancano alla sua laurea in Letteratura inglese; per questo ha chiesto il visto per poter venire in Italia, sperando di migliorare la sua situazione e di poter così aiutare ancora di più i suoi cari. È arrivato a Roma quasi un anno fa, con il primo viaggio dopo quello della famiglia di Falak. Ha imparato molto bene l’italiano, si è inserito nel quartiere dove vive e ha trovato amici nuovi. Ma non è felice. Sta scadendo il periodo di assistenza del progetto e lui non ha trovato nessun lavoro né ottenuto alcuna borsa di studio. Se la situazione rimarrà questa, a breve dovrà andare in una struttura dello Stato. Alla domanda se si è pentito della sua scelta risponde no e dice anche che non tornerebbe in Libano. Ma aggiunge: «Qui c’è una crisi grave, è molto difficile trovare un lavoro e ancora più difficile trovare un posto dove vivere che non costi tantissimo. Ho mandato il mio curriculum a chiunque senza ottenere nulla e non riesco ad avere tutti i documenti che mi servono per sperare in una borsa di studio. Così il mio futuro mi sembra ancora drammatico. I corridoi umanitari sono una cosa bellissima ma non completa Bisogna pensare meglio a quello che succede una volta qui».