BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Le mafie non sono invisibili…

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“Quello che mi stupiva dell’Emilia erano tutte queste rotonde che nascevano dal nulla, da un giorno all’altro. Mi sembrava strano, mi chiesi il perché. Mi chiesi anche come mai qui si costruisse così tanto”. E’ stato sufficiente aprire gli occhi a Sara Donatelli, 24 anni, siciliana trasferita nel modenese, per capire che nella virtuosa terra emiliana, teatro delle più eroiche e cruente battaglie partigiane, si insinuasse qualcosa a lei molto familiare: la mafia. “Mi dicevano: vedi la mafia ovunque, ma io leggevo di roghi dolosi apparentemente inspiegabili, e poi vedevo zone edificate dal giorno alla notte. Per un periodo ho lavorato in una pizzeria di un calabrese dove ogni giorno arrivava a mangiare un gruppo di suoi conterranei che però non pagava mai. Ma nessuno si stupiva. Ho fatto delle ricerche, il titolare era un pregiudicato in affari con i clan calabresi”.

I fenomeni mafiosi lasciano molte tracce nei territori che intaccano, tracce che non sono sempre uguali. Bisogna saperle individuare ed interpretare, annodare i fili dei fatti e per farlo servono occhi ben aperti. L’Emilia invece si credeva al di sopra del rischio di contaminazione mafiosa e questo ha tenuto le difese basse permettendo ai clan di entrare dalla porta principale. La Dia nella sua ultima relazione ha detto che “l’Emilia è terra di ‘ndrangheta da almeno un decennio” e che “silenzio e sottovalutazione” del fenomeno hanno permesso ai clan di impadronirsi di pezzi importanti dell’economia locale nel silenzio generale. Non a caso il 28 gennaio del 2015 quando la procura distrettuale antimafia di Bologna ha arrestato 117 persone fra imprenditori, professionisti, politici, uomini dei clan legati alla ‘ndrangheta, l’Emilia è rimasta sgomenta nello scoprirsi diversa da come si credeva. Nel marzo del 2016 è iniziato il processo Aemilia, il più grande processo di mafia al nord, così Sara Donatelli insieme a Sabrina Natali del movimento delle Agende Rosse di Modena hanno deciso che non bastava indignarsi e restare a guardare. “All’inizio volevamo solo pubblicare la rassegna stampa sul processo. Poi siamo andate alla prima udienza e ci siamo accorte che non sarebbe bastato. Dovevamo fare di più.

Abbiamo iniziato a trascrivere ogni udienza, ogni interrogatorio, ogni deposizione per poi metterla su facebook e sul sito processoaemilia.com” Una mole di lavoro enorme che porta i nomi, i fatti, le tecniche di infiltrazione ‘ndranghetiste fuori dall’aula bunker di Reggio Emilia per affidarle alla coscienza e conoscenza collettiva. Un lavoro che ha dato fastidio agli imputati detenuti in carcere che all’inizio di una delle ultime udienze, attraverso un loro portavoce hanno chiesto di cacciare i giornalisti dall’aula, indicando fra i responsabili di una cattiva informazione oltre a giornali e tv locali anche Sara e Sabrina. “Ce lo aspettavamo prima, c’erano stati già dei sentori. Ai parenti degli imputati ha dato fastidio da subito. Non venivano direttamente a dircelo, ma nelle pause del processo Aemilia si mettevano accanto a noi a contestare il nostro lavoro. Dava fastidio tutta questa pubblicità al processo. Poi sulla pagina facebook, accanto alle trascrizioni delle udienze compaiono di continuo i like dei parenti degli imputati, mandano messaggi con i sorrisini, per far capire che ci leggono, che sanno che ci siamo”. La FNSI si è schierata accanto ai cronisti minacciati chiedendo ai media nazionali di rilanciare le loro inchieste, mentre il tentativo delle associazioni mafiose è quello di tenere i processi in sordina, per evitare che l’indignazione dell’opinione pubblica porti a pene più severe e che la pubblicità dei media sveli a tutti i meccanismi mafiosi rendendoli meno efficaci. “Non abbiamo paura e non abbiamo pregiudizi nei confronti degli imputati, ho rispetto per i loro parenti. A noi interessa che si sveli il sistema”. Accendere un faro sulle connivenze fra malavita organizzata e tessuto economico è compito difficile perché ancora oggi molti politici locali tendono a derubricare il radicamento mafioso emiliano ad un contagio facilmente debellabile. In questo modo il livello d’attenzione cala e si torna vulnerabili. “Io studio a Ferrara e qui sono su un altro pianeta, considerano Reggio Emilia una terra lontana e si sentono fuori dai pericoli. Ma in generale l’idea che la gente si è fatta della vicenda è che questo territorio puro sia stato inquinato dai clan che sono venuti dal sud a fare i loro sporchi affari. Non è cosi. Questo viene descritto come un processo contro un clan di calabresi. Ma non è solo questo. A processo c’è un sistema, dove c’è anche un clan calabrese, ma ci sono anche politici, giornalisti, forze dell’ordine, notai, imprenditori locali che hanno beneficiato di questo sistema. Al centro dello schema c’è il clan Grande Aracri, che ha potuto vivere, estendersi ed ingrassare perché c’era un sistema emiliano che gli girava attorno e faceva affari con lui”. La ‘ndrangheta in Emilia “ha fatto il salto di qualità, ha rotto gli argini entrando in contatto con il tessuto economico locale” ha detto il gip Francesca Zavaglia nelle motivazioni con cui ha condannato con rito abbreviato 58 persone ad oltre 300 anni di carcere nell’udienza preliminare del processo Aemilia. “Se le mafie formano una rete transnazionale aiutandosi a conquistare territori e capitali vuol dire che anche chi la combatte deve fare la stessa cosa”. Da questa idea è nata Mafie Sotto Casa, un sito dove le associazioni antimafia locali mettono in comune le proprie conoscenze, le proprie notizie, le proprie analisi; tasselli che come in un puzzle compongono un quadro globale del fenomeno mafioso molto più comprensibile e dunque contrastabile.

Un lavoro fra giornalismo investigativo e data journalism in cui si segnano gli episodi criminali anche i più modesti come i reati-spia per darne poi una interpretazione complessiva. “Parlare di episodi, segnarli senza trascurarne nemmeno uno consente di comporre una mappa organica. Ad esempio la Romagna ha molti beni confiscati e in Emilia ci sono molti roghi dolosi segno di due sistemi mafiosi diversi. Segnarli geograficamente su una cartina aiuta a capire i fenomeni. Le mafie non sono invisibili. Si fanno sentire. Bisogna solo saper leggere i segnali che il territorio manda”.


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