Il décor, le luci, le atmosfere, i temi richiamano l’ultimo film di Roberto Andò Le confessioni. Stessa sensazione di indefinita ma fatale minaccia, di trovarsi all’interno di un meccanismo indecodificabile ed elusivo quanto implacabile. Identica illusione di uno spazio chiuso moltiplicato all’infinito, mutato in lustro, macabro labirinto da noir à la Durrenmatt, con apparato di identità e ruoli dai contorni sfumati di nebbia, di operazioni finanziarie illecite proliferanti in metastasi che insidiosamente corrompono l’organismo sociale lungo ogni parallelo e meridiano, su e giù per l’intero pianeta, gettando singoli e masse in un’ansia senza sbocchi e non del tutto compresa (neppure da chi la prova), nel vicolo cieco della frustrazione incolpevole.
La differenza sta nel perfetto equilibrio fra costruzione astratta, o meglio fantastica, ed elementi concreti, che questa volta Andò riesce a trovare, grazie anche a Laura Morante, che letteralmente dà vita e respiro, e grazia svagata e sulfurea alla protagonista Mira.
Enigmi e interrogativi iniziano subito, dentro la sala da pranzo della villa, troppo abbandonata troppo vuota troppo buia, persa nella campagna Toscana che Mira ha ereditato dalla famiglia. Il marito Rando, di cui la donna sembra non avere notizie da giorni, l’ha trasformata in un albergo, o B&B, o chissà cosa (lasciando tuttavia le antiche soffitte alle presenze spettrali che si muovono invisibili nella casa): sono venute solo sette camere, ma grandi sa, anche troppo, si lamenta Mira. Ma i permessi non sono ancora arrivati e il personale non si è fatto vivo, ammesso che sia mai stato assunto. Rando è un uomo poco agevole, scorbutico, sempre arrabbiato, impegnato in mille attività diverse, che – scopriremo o intuiremo – rasentano pericolosamente i territori di ogni sorta di organizzazione criminale, racconta poco o nulla alla moglie riguardo spostamenti, attività, frequentazioni, intenzioni. Almeno questo riferisce la Signora Mira ai quattro poco desiderati ospiti, servendo in tavolo uno spezzatino cotto per tre ore secondo la tradizione, e reso morbido utilizzando il brodo. Laura Morante, padroneggiando con disinvoltura impareggiabile un’elegante inflessione toscana e un lessico così garbatamente ricco e inconsueto da rivaleggiare con quello del modello goldoniano, riesce a materializzare persino il profumo speziato, carnoso, umido di sughi della pietanza.
I quattro convitati serali sono due faccendieri presumibilmente pericolosi e dai modi assai poco signorili in attesa del ritorno di Rando e due giovanissime escort ingaggiate forse da Rando per intrattenere i loschi uomini d’affari, uno dei quali, assai volgare e chiassoso, vanta di continuo rapporti stretti “con i russi”, lodando i metodi spicciativi di quel sistema economico.
Pur schernendosi con l’affermazione di non saper tenere banco, mentre sa bene di farlo da gentildonna esperta di arti salottiere, Mira cerca di intrattenerli assicurando l’arrivo del marito al più tardi per il mattino seguente. E, nello stesso tempo, incalza di domande sempre più ansiose il cupo e sibillino contabile di Rando, in procinto di andarsene per assolvere un compito misterioso.
Con l’avanzare della notte, arriva alla villa anche il classico forestiero tenebroso e laconico da romanzo poliziesco, in cerca di una camera. Il Signor Riva ha sulla fronte una ruga da marinaio stanco (in realtà una cicatrice, ricordo di una sparatoria; e anche questo nuovo personaggio anela a incontrare Rando con propositi di vendetta) che pare suscitare l’interesse di Mira. La padrona di casa distilla tutto il fluido seduttivo che possiede, facendone un’essenza sottile e irresistibile. Avvicinandosi e ritraendosi, induce Riva a tenerle bordone con gli altri quattro, e presentandolo come un caro amico di famiglia – un fratello per Rando – inizia a tessere un’affabulazione meticolosa e travolgente intorno a una comune vacanza in Spagna. Ri-costruisce una realtà pesante e avvilente, che si manifesta solo per un attimo con un grido sincero di esasperazione, cambiandola in racconto iridescente, in rivisitazione fantastica e ironica di un’esistenza che respinge ma di cui è profondamente consapevole.
In un aprirsi e chiudersi di porte munite di specchi bruniti, nei quali si riflettono figure sempre più inconoscibili, gli eventi si accumulano e si sciolgono. Il contabile Brizio, rientrato con una borsa piena di denaro e con intenti di ricatto sessuale nei confronti di Mira, viene ucciso da Riva per errore (un errore provocato dalla Signora). Riva fuggirà, subito seguito dai due faccendieri e dalle escort, tutti quanti spaventati dal trambusto e dal possibile intervento della polizia, lasciando Mira a progettare la miglior sorte possibile per il corpo di Brizio: sepolto in giardino, sotto una pianta di limone.
La telefonata finale al marito, nella penombra di una stanza, superba conclusione del testo meravigliosamente surreale, nero, a tratti esilarante di Edoardo Erba, ci rivela la complicità, piena di piccoli, velenosi risentimenti, che lega Mira a Rando. Il piano era comune, ma in corso d’opera l’ineffabile Signora ha operato degli aggiustamenti, delle variazioni necessarie, scegliendo soluzioni per così dire definitive. A differenza di Mirandolina scopre o decide di non aver bisogno di un appoggio maschile e, con simulato rammarico che sublima l’astio soddisfatto, si dispiace molto dell’esilio perpetuo in luoghi remoti cui sarà costretto il marito per evitare l’ira della criminalità organizzata. E, facendo volare le banconote sul pavimento, aggiunge con appena rattristata perfidia: sì sarà durissima, ma in qualche modo mi arrangerò.
LOCANDIERA B&B
di Edoardo Erba (uno studio sul La locandiera di Carlo Goldoni)
regia Roberto Andò
aiuto alla regia Luca Bargagna
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Alessandro Lai
suono Hubert Westkemper
con Laura Morante, Danilo Nigrelli, Bruno Armando, Vincenzo Ferrera, Roberto Salemi, Giulia Andò, Eugenia Costantini
Teatro della Pergola – Firenze