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Gli Oscar, Trump e la guerra fra le due Americhe

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Se alla cerimonia degli Oscar di domenica scorsa il crudo realismo di “Moonlight” ha avuto la meglio sulla spensierata felicità di “La La Land” non è per ragioni artistiche o cinematografiche, essendo entrambe le pellicole piuttosto apprezzate sia dal pubblico che dalla critica, bensì strettamente politiche. Innanzitutto, la questione razziale: la mancanza di premiati di colore nell’edizione 2016 e le disparità tuttora permanenti nel grande circus hollywoodiano, con differenze di importanza, di trattamento economico e di prestigio fra bianchi, neri, asiatici e latinos e anche fra uomini e donne, ha indotto gli organizzatori a correre ai ripari, valorizzando una pellicola di spessore il cui migliore attore non protagonista è nero e per giunta musulmano. In secondo luogo, in questa stagione trumpista, nella quale Hollywood è di fatto sul piede di guerra, sconvolta per la vittoria di un soggetto palesemente ostile e lontanissimo dal mondo liberal e progressista tipico dell’universo californiano, serviva un segnale di netto contrasto nei confronti dell’attuale Amministrazione. Infine, c’è una ragione storica e di merito al tempo stesso, ossia che Chazelle ha costruito un garbato musical in grado di suscitare emozioni e di narrare alla grande un’America che, sostanzialmente, non esiste più: l’America dell'”American dream”, convinta che tutti possano farcela, che tutti possano realizzare le proprie ambizioni, che esistano occasioni e prospettive per tutti, che l’ascensore sociale funzioni ancora e che sia ancora possibile il miraggio, tipicamente californiano, secondo cui l’autista di una limousine può diventarne il passeggero e il cameriere di un ristorante di lusso un avventore che lascia laute mance. Ebbene, Hollywood, preferendo “Moonlight” e il suo crudo realismo, ha preso definitivamente atto che non è più così. Diciamo che, con qualche anno di ritardo e a pochi mesi dalla sconfitta della Clinton, anche il dorato mondo del cinema d’autore si è reso conto che l’America delle favole che per molti anni ci è stata raccontata, quella nazione in cui con caparbietà e impegno chiunque può realizzare i propri obiettivi, semplicemente non esiste più.
Anche sul dorato monte californiano hanno preso a spirare i venti di crisi che sconvolgono da tempo l’intero Paese, di fatto squassandolo e dividendolo in tante piccole patrie in guerra le une con le altre, in una contrapposizione feroce, diremmo quasi devastante, al punto che oggi si può parlare di almeno due Americhe nemiche e senza alcuna possibilità di venirsi incontro, come se fossimo al cospetto di una nuova Guerra di secessione a un secolo e mezzo da quella che ha ispirato tanti bei western.
Le due Americhe in questione sono quella in stile anni Sessanta dei giovani e delle star superpagate, costantemente in piazza contro un soggetto che considerano nemico non solo del proprio Paese ma dell’intera civiltà occidentale, e quella in stile anni Venti, proibizionista, autarchica, gretta e priva di alcuno slancio vitale, incarnata da Trump e dal suo grumo di interessi.

Un’America costiera, suddivisa fra New York, Los Angeles e altre località d’élite, contrapposta all’America rurale, all’America dei dannati della globalizzazione: l’America delle periferie dimenticate e abbandonate a se stesse, l’America degli ultimi, fragile e disperata, quell’America sconfitta e priva di prospettive che si è affidata a Trump se non altro per punire i Clinton, per vendicarsi dei loro accordi commerciali, per sconfiggere l’idea che il libero mercato possa progredire all’infinito e assicurare a tutti il benessere necessario, per sfogarsi contro quella che considerano un’ingiustizia, un furto, un attentato costante alle loro vite di scarto. Ed ecco che la rabbia si trasforma in voto e il voto nella vittoria di un personaggio senza alcuna precedente esperienza politica, nato dal business immobiliare e televisivo e capace di sfruttare la propria notorietà per conquistare una carica che mai avremmo pensato che potesse coincidere con una figura tanto lontana da ciò che nell’immaginario collettivo dovrebbe rappresentare un capo di Stato nonché arcinemica di quell’establishment culturale che, agli occhi di milioni di persone, non solo negli Stati Uniti, è corresponsabile dei disastri provocati dalla cosiddetta casta politica. Non è raro, infatti, ascoltando la gente comune sfiancata dalla crisi, sentirla accomunare tutte le caste, mettendo sullo stesso piano giornalisti, politici, mondo della cultura e, ovviamente, star del cinema, invise perché considerate l’emblema di un “politically correct” stucchevole e inconcludente e perché beneficiarie di compensi astronomici che alle masse impoverite e con un avvenire incerto o pressoché inesistente fanno ribollire il sangue.
Le due Americhe passeranno i prossimi quattro anni a punzecchiarsi e a sfidarsi, ad accusarsi reciprocamente di essere la causa della rovina del Paese e a cercare in ogni modo di scalzarsi a vicenda. Si combatteranno, si sfideranno, si accapiglieranno su tutto senza requie e arriveranno senza alcun dubbio a distruggere il concetto stesso di unità nazionale.
E il Trump falsamente moderato del Discorso sullo stato dell’Unione di martedì scorso è lo stesso che pochi giorni dopo ha accusato Obama di averlo addirittura spiato nel corso della campagna elettorale, rivelando, se ancora ce ne fosse bisogno, tutti i propri limiti, la propria inadeguatezza, la propria pochezza pochezza morale e la propria disonestà intellettuale.

Fine dell’Impero americano, tramonto di un’illusione e sconfitta inevitabile dei suoi cantori ottimistici, dunque. L’ottimismo non appartiene a questa epoca: l’innocenza non esiste più e la cruda realtà parla di un Paese in ginocchio, male amministrato e con enormi disparità al proprio interno, oltretutto incapace, persino negli otto anni di Obama, di valorizzare e trarre vantaggio dalle proprie diversità. E Hollywood, un tempo fabbrica dei sogni e simbolo della potenza di una Nazione apparentemente invincibile, ha recepito il messaggio e si è comportata di conseguenza.


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